Momenti del ristagno lapideo italiano

Il marmo e le altre pietre di pregio costituiscono una risorsa di rilievo nell’ambito delle strategie di sviluppo avviate da diversi Paesi per la valorizzazione delle proprie risorse: in questa ottica, non sorprende che la produzione mondiale del settore sia cresciuta di almeno quattro volte nel giro degli ultimi 25 anni, con il contributo decisivo dell’interscambio, che interessa una quota altrettanto importante delle disponibilità e la maggioranza del giro d’affari.

Tra i pochi Paesi in controtendenza, il caso dell’Italia è la dimostrazione di quali effetti negativi possano scaturire dalle carenze politiche, con riguardo prioritario all’incapacità di comprendere il ruolo propulsivo del lapideo, diversamente da quanto è accaduto altrove: fattore tanto più condizionante quando si pensi che le riserve sono diffuse su tutto il territorio nazionale, con potenzialità di particolare rilievo nei distretti tradizionali di Toscana e Veneto, ma con opportunità non meno importanti in altre Regioni, tra cui è congruo ricordare Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglie, Sicilia, Sardegna. In questo senso, sia pure con le differenze del caso, non è azzardato parlare di specifiche responsabilità generali, sia a livello nazionale, sia nell’ambito regionale.

E’ passato oltre mezzo secolo da quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite si fece premura di sollecitare lo sviluppo del settore attraverso adeguate misure incentivanti, capaci di promuovere investimenti, in specie laddove altri comparti non avessero la medesima idoneità strategica: ebbene, quella raccomandazione del 1976 è stata palesemente accolta dai maggiori protagonisti lapidei extra-europei, a cominciare da Cina, India, Turchia e Brasile, la cui espansione è stata contraddistinta da tassi talvolta esponenziali, mentre in Italia, a differenza di quanto accade nel resto d’Europa, è venuta meno persino la strategia minima: quella di tutela dell’esistente.

La crisi endemica del mercato interno non ha trovato nell’export, soprattutto nel nuovo millennio, la tradizionale valvola di sicurezza, anche a causa della soverchia parcellizzazione aziendale e della conseguente impossibilità delle piccole imprese, che costituiscono la struttura portante del settore, di operare funzionalmente nelle nuove dimensioni globali del rapporto tra offerta e domanda. Il ristagno del fatturato estero, ormai lontano dai massimi storici, è stato oggetto di un ampio ma velleitario dibattito nelle sedi di competenza. In effetti, non ne è scaturita un’intesa tra il momento politico e le forze sociali circa gli interventi necessari ad invertire la tendenza, in un quadro di programmazione.

La crisi ha coinvolto in misura non meno rilevante anche le importazioni, con particolare riferimento a quelle dei grezzi, che per molti anni avevano alimentato segherie e laboratori con materiali scelti di altra provenienza – in specie silicei – capaci di incrementare tangibilmente il valore aggiunto, potenziando il consumo domestico ed integrando le maggiori forniture all’estero in modo da soddisfare integralmente le esigenze di una progettazione e di una committenza sempre più attente ai parametri qualitativi, non meno che alla variabile economica.

Da questo punto di vista, le cifre sono oltremodo chiare. Nel volgere dell’ultimo ventennio, l’importazione italiana del grezzo è quasi dimezzata, scendendo da 2,1 a 0,9 milioni di tonnellate (consuntivo del 2018) con una discesa sostanzialmente costante a far tempo dal 2006. Ne è scaturita una recessione delle attività trasformatrici che, sommandosi a quella delle produzioni domestiche, comprese quelle tipiche ed esclusive, ha dato luogo a condizioni di diffuso ristagno: ciò, sebbene in qualche caso si sia progressivamente diffusa la tendenza a preferire l’esportazione diretta del blocco di qualità, con vantaggi proporzionali per gli acquirenti esteri ma nello stesso tempo con ulteriori penalizzazioni del valore aggiunto. La perdita di capacità produttiva che ne è scaturita appare difficilmente recuperabile, tanto più che si è tradotta in obsolescenze anticipate, rinvio di manutenzioni, ed alla fine, in cessazioni dell’attività imprenditoriale. E’ certamente cosa buona e giusta confidare nella progettazione di Industria 4.0 ma è altrettanto doveroso tenere conto dei fattori depressivi presenti nel sistema, per esorcizzarli ed espungerli preventivamente.

E’ bene sottolineare che la crisi dell’import costituisce una componente minoritaria di quella lapidea, restando di tutta evidenza che la questione prevalente nell’ambito dell’interscambio è sempre quella dell’esportazione. In effetti, le sorti di marmi e pietre d’Italia sono strettamente legate alle prospettive di collocamento all’estero, in specie del valore aggiunto, ma ciò non significa che questo sia il problema unico: accanto all’import ed al regresso delle attività trasformatrici è congruo tenere conto dl mercato interno, infrastrutture, formazione, investimenti, credito, e via dicendo.

In conclusione, è d’uopo fare appello ad una volontà politica che sia finalmente capace di comprendere l’effetto moltiplicatore implicito nel comparto lapideo, e di operare in conseguenza, d’intesa col mondo imprenditoriale e con quello del lavoro.