L’ardesia del Brasile

La nomenclatura settoriale definisce l’ardesia come una varietà di scisti argillosi destinata ad un ampio ventaglio di applicazioni decorative e strutturali, che vanno dai pavimenti e rivestimenti alla copertura dei tetti, a parte talune applicazioni particolari come i piani da biliardo o le lavagne. In tempi ormai lontani la produzione italiana era maggioritaria, in specie per quanto riguarda gli utilizzi di livello, ma col passare degli anni la concorrenza è diventata sempre più agguerrita, a cominciare da quella spagnola per le tipologie correnti, e da quella brasiliana per i materiali di maggior pregio (senza dire della Cina e dell’India, dove le riserve sono molto ampie, anche se non ancora valorizzate pienamente).

 

La storia dell’ardesia coltivata nel Minas Gerais, dove si concentra l’estrazione brasiliana, è lunga e suggestiva, e mette in luce che l’attività risalirebbe addirittura al decimo secolo, ad opera delle popolazioni precolombiane, sia per lavori strutturali, con particolare riguardo alle opere difensive, sia per la realizzazione di oggetti. Tuttavia, lo sviluppo industriale del settore si è concentrato soprattutto nell’ultimo quarantennio, vale a dire dagli anni ottanta in poi, quando il Brasile, grazie alla forte crescita degli investimenti ed alla valorizzazione delle proprie risorse, ma anche all’incremento della domanda internazionale, è diventato il secondo esportatore mondiale di ardesia, dopo la Spagna.

 

Attualmente, la produzione si colloca nell’ordine del mezzo milione di tonnellate in ragione annua, provenienti prioritariamente dal comprensorio di Papagaio, che non a caso è stato definito “provincia dell’ardesia” ed esprime la maggioranza assoluta del volume estratto. L’attività di cava genera, a sua volta, un indotto importante: per dirne una, sono centinaia le imprese che operano nel solo ambito di valorizzazione degli scarti e delle iniziative distributrici collegate. Vale la pena di rammentare che secondo stime locali le riserve disponibili sarebbero in grado di garantire la continuità del lavoro per 15 mila anni, agli attuali livelli produttivi: in poche parole, si tratta di una risorsa praticamente inesauribile.

 

La struttura di cava, e soprattutto quella di trasformazione, come spesso accade nel comparto lapideo, sono molto parcellizzate: nel primo caso, con parecchie decine di imprese operative, e nel secondo, con diverse centinaia. Il materiale si presenta in tonalità diverse, dal grigio al verde, fino al nero ed al lilla, con destinazioni largamente prevalenti ai manufatti per l’edilizia, compreso l’arredo urbano, e viene molto apprezzato per i suoi caratteri tecnologici di resistenza e di durata, senza trascurare l’elevata economia di manutenzione.

 

L’esame comparativo con altri tipi di ardesia pone in evidenza come quella brasiliana sia più dura, e quindi più resistente della media: tra le cause del fenomeno, in base alle conoscenze scientifiche disponibili nel Minas (notevolmente sviluppate) si deve annoverare il fatto che le pressioni sugli strati dei giacimenti vengono esercitate verticalmente e non lateralmente. Del resto, la normativa tecnologica statunitense ha posto il materiale di Papagaio in classe 1, con aspettative di durata nel tempo di almeno tre quarti di secolo per quanto si riferisce agli impieghi esterni, ovviamente di maggiore impegno. Si tratta di ragioni oggettive, che sono alla base del buon successo sul mercato internazionale, sempre più selettivo anche nella domanda di ardesia (assieme ad una buona competitività economica).

 

Non a caso, negli ultimi cinque lustri il prodotto ardesiaco brasiliano ha visto il suo export balzare dalle 10 mila tonnellate del 1995 alle oltre 100 mila del 2018, con un valore pari ad oltre 41 milioni di dollari, ed una quota dell’interscambio mondiale specifico che è pervenuta al dieci per cento. Sono risultati che consentono di guardare al futuro con fiducia, a prescindere dalle ricorrenti difficoltà congiunturali, grazie ad un livello imprenditoriale di qualità, caratterizzato dalla capacità di investire e di mettere a disposizione del mercato materiali competitivi, in grado di soddisfare la clientela qualificata.

Nuovo contratto collettivo per i lavorati del marmo: Un centinaio di euro mensili di aumento a regime ed interventi per la sicurezza

(Foto Daniele Canali)

E’ appena entrato in vigore il nuovo contratto nazionale di categoria per gli addetti all’industria lapidea, firmato dalle Organizzazioni sindacali e datoriali alla fine dello scorso ottobre, al termine di un iter piuttosto rapido, nonostante un’interruzione a primavera ed una giornata di sciopero in luglio: discrasie poco più che simboliche, se poste a raffronto con vertenze storiche di lunga durata e di forti tensioni sociali, tuttora rammentate dagli anziani non senza nostalgie e qualche commozione.

Stante il momento critico – ma per molti aspetti sarebbe più congruo parlare di ristagno – che il comparto vive in Italia e non solo, i risultati della trattativa sono stati abbastanza positivi, traducendosi in un aumento complessivo medio di 97 euro mensili spalmato in tre ratei annuali (l’ultimo andrà a regime nel gennaio 2022) ed in significativi apporti migliorativi nell’ambito della sicurezza, che non da oggi costituisce una delle preoccupazioni più sentite nel mondo del marmo, con ovvio riguardo prioritario a quello estrattivo. A tale ultimo riguardo, giova sottolineare l’erogazione di 4,25 euro mensili per ogni lavoratore, da accreditare in un apposito Fondo destinato a potenziare il sistema antinfortunistico.

Al di là dei contenuti concreti dell’accordo, ciò che si deve desumere piuttosto chiaramente dalla sostanziale disponibilità delle parti a “chiudere” in tempi funzionali é un fatto incontestabile, confermato dai grandi numeri della produzione, del mercato interno e dell’export: il comparto continua a non crescere, ed anzi appare impegnato in una difesa dell’esistente a cui corrispondono investimenti a carattere prevalentemente sostitutivo piuttosto che innovativo, una promozione carente, ed in parecchi casi regionali o comprensoriali, attenzioni molto relative da parte del momento politico, senza dire della permanenza di qualche conato punitivo riveniente da opinabili pregiudiziali ecologiche (caso mai, sarebbe d’uopo qualche misura importante nel campo dell’azione infrastrutturale di competenza pubblica).

L’Italia non è più in grado di competere sul piano quantitativo coi grandi colossi del settore quali India, Cina, Turchia, Iran e via dicendo. Nondimeno, eccelle sempre sul piano qualitativo, come attestano il suo primato nel valore medio dell’export di lavorati ed il secondo posto mondiale nella graduatoria del giro d’affari relativo al prodotto finito: un fiore all’occhiello che sottolinea la permanente preferenza della clientela di vertice, ma che si paga in modo visibile con le progressive riduzioni della medesima esportazione, sia in valore, sia – a più forte ragione – in volume, e con gli effetti a cascata che ne derivano, per concludersi con quelli sui livelli occupativi.

In conclusione, se da un lato è giusto compiacersi per la definizione del nuovo contratto collettivo, dall’altro non resta che aggiornare la lunga lista delle doglianze per una politica settoriale episodica, e sempre più lontana dalla programmazione organica che in altri Paesi più consapevoli è impegnata, se non altro, nella consapevole opera valorizzatrice dei contenuti sociali e civili del marmo e della pietra.

Vando D’Angiolo. Una vita per la pietra e per i valori umani: all’insegna della volontà e dell’ethos

Il mondo del marmo e della pietra si avvale di tradizioni plurimillenarie, a cui non è estranea la capacità di valorizzare al meglio alcuni protagonisti che hanno compreso la sua grandezza, e che sono stati in grado di tradurla in realizzazioni capaci di sfidare la prova del tempo, con una proiezione a lungo termine non aliena dall’esprimere aneliti di eternità. Ultimo di questi protagonisti è stato Vando d’Angiolo (1) il cui ruolo nel comparto lapideo dagli anni sessanta al primo ventennio del nuovo secolo ha avuto caratteri fondamentali, oltre che fortemente innovativi.

Il percorso professionale e civile di quest’Uomo “dal multiforme ingegno” ha dimostrato come si possano coniugare felicemente l’azione concreta ed operosa con la nobiltà dei principi etici e dei sentimenti, esorcizzando un comodo atteggiamento del mondo contemporaneo, propenso ad accogliere le deviazioni dell’egoismo, se non anche del nichilismo. Lo attestano la rapida ascesa dalla dura vita di montagna ai fasti dei molteplici riconoscimenti istituzionali, ed alle relazioni di altissimo livello coi massimi esponenti dell’architettura e della progettazione, quali Mario Botta, Bruce Graham, César Pelli, Renzo Piano, Kenzo Tange e tanti altri, per non dire dell’amicizia con artisti del calibro di Giuliano Vangi (2). Tali relazioni hanno contribuito a fargli guidare il Gruppo Campolonghi nella realizzazione di commesse ai più alti livelli mondiali: fra le tante, l’Opera House di Oslo, il Municipio di Tokyo e la Basilica di San Pio da Pietrelcina, a San Giovanni Rotondo. In qualche misura, il giudizio che meglio di tutti ha compendiato la vita di Vando è stato quello di Massimo Mallegni, suo buon amico e Senatore della Repubblica: “Ha fatto la storia” (3).

Nel 1960, quando la vita professionale del Dr. d’Angiolo era ancora agli inizi, la produzione lapidea italiana aveva raggiunto la quota di 835 mila tonnellate (4) mentre al giorno d’oggi, nonostante un andamento certamente  critico rispetto all’espansione mondiale, si ragguaglia – secondo le stime più accreditate – a circa sei milioni di tonnellate (5). Ebbene, non è azzardato presumere che una parte di questo successo sia dovuta all’apporto di chi, come Vando d’Angiolo, ha saputo affrontare il rischio d’impresa con investimenti produttivi idonei a soddisfare una domanda internazionale sempre più esigente ma altrettanto impetuosa, e con una promozione basata soprattutto sulla qualità del prodotto, e quindi sul livello professionale delle maestranze, senza trascurare una rapporto strettamente fiduciario con la clientela, secondo le regole commerciali del buon tempo antico. Ciò spiega come mai le aziende guidate da Vando d’Angiolo abbiano potuto bruciare le tappe anche in termini di volume d’affari, nell’ordine attuale dei cento milioni di dollari, ed a circa il sei per cento dell’export italiano di prodotti lapidei finiti.

Era molto sensibile ai contenuti espressivi della pietra ed al suo ruolo di motore dell’evoluzione sociale in contesti caratterizzati dalla carenza di altre risorse, ma non prescindeva dal considerare molto realisticamente il limite oggettivo ad un’espansione indefinita, sottolineando il ruolo della concorrenza, da cui scaturiscono velocità di crescita molto diverse da un Paese all’altro, con particolare riguardo “al decollo ormai definitivo di Paesi in via di rapido sviluppo come Cina, Brasile, India e Sud-est asiatico” ed alle conseguenze, quanto meno complesse, per quelli “di più antica vocazione lapidea”, ivi comprese le necessità di adeguati interventi (6).

 

 

Di qui, l’imperativo di non rinviare la soluzione di “nodi essenziali come quelli della legge quadro per le cave o dei finanziamenti per la professionalizzazione e la ricerca”; ma nello stesso tempo, il permanente bisogno di investire nella competitività, in guisa che “i prezzi rimangano remunerativi” assicurando “margini di gestione indispensabili” ad una politica di produttività, ben dimostrata dall’alto livello del giro d’affari per addetto nelle aziende del Gruppo Campolonghi. Concezione pragmatica quanto si voglia, ma fondata sulla corretta combinazione dei fattori produttivi, diversamente da quanto continua ad accadere con troppa frequenza in un settore come quello lapideo, caratterizzato dalla presenza di una quota tuttora ampia di unità aziendali con controlli approssimativi, se non anche carenti, degli equilibri fra costi e ricavi.

I riconoscimenti conferiti a Vando d’Angiolo nel corso di una vita esemplarmente operosa hanno avuto carattere sostanzialmente unanime, sia da parte istituzionale, sia da parte dei concorrenti più moderni ed attenti a mutuarne l’esempio, oltre che delle organizzazioni sindacali con cui le aziende del Gruppo Campolonghi si sono sempre confrontate in un clima costruttivo e volitivo che costituisce un ulteriore modello di riferimento. Non a caso, come ha riferito lo stesso Vando nella “conversazione” tenuta durante la cerimonia di consegna del “Campano d’Oro” dall’Università di Pisa, persino la banda di Azzano, suo paese natale, aveva intonato per lui l’Inno dei Lavoratori, sia in occasione della laurea, sia – tanti anni dopo – ricorrendo il cinquantenario della medesima Campolonghi: tutto ciò, “senza appartenenze né colorazioni” ma nel solo ossequio a “chi si impegna e chi lavora” (7). Si deve aggiungere non senza commozione che la  banda di Azzano ha suonato per la terza volta lo stesso Inno quando il feretro di Vando è giunto davanti alla Chiesa parrocchiale di Vittoria Apuana, per l’ultimo saluto.

Per completare il quadro di una forte personalità e di un confronto attivo coi momenti negativi che sono all’ordine del giorno nella vicenda umana, conviene aggiungere che seppe superare con successo i problemi conseguenti alla salute del cuore: fu colpito da tre infarti, ma seppe reagire con  esemplare forza d’animo ed indomito coraggio, quale novello “vir bonus cum mala fortuna compositus” di cui alla celebre definizione di Seneca. Non a caso, l’Uomo forte chiamato alla lotta contro le avversità si era dovuto affidare alle cure del celebre cardiologo Terence Kavanagh (8) che sarebbe diventato suo grande amico e che, grazie alla collaborazione del paziente, ne avrebbe fatto addirittura un maratoneta, facile ad incontrarsi di buon mattino negli allenamenti sulla spiaggia di Forte dei Marmi.

Aveva una grande propensione ad essere amico di tutti, trovando per chiunque una parola di affettuosa e sincera cordialità. Ciò non significa che abbia potuto contare sempre sulla reciprocità degli atteggiamenti e dei sentimenti, con particolare riguardo al rapporto con taluni colleghi della concorrenza a cui mancavano le sue doti di imprenditorialità capace di affrontare in modo adeguato e consapevole il rischio dell’intrapresa, e prima ancora, quelle di una relazione umana spontanea e costruttiva. D’altra parte, conosceva bene il mondo, e considerava la “realtà effettuale” come un fattore da gestire nella normale dialettica della vita. Al limite, facendo proprio l’assunto di Dante: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.

Vando d’Angiolo lascia un esempio di vita fatto di costante impegno in un Gruppo industriale di straordinaria dimensione nell’ambito del comparto lapideo, creato sostanzialmente da zero, ma nello stesso tempo, una lezione umana e civile suffragata dalle costanti attività nel campo del volontariato e della collaborazione sociale, a cominciare dalla “Fondazione Mite Giannetti d’Angiolo” in memoria della mamma, cui fu sempre fedele quale prima artefice del suo successo.

 

 

Quella di Vando è stata una vita esemplare all’insegna della responsabilità e della sua interpretazione in chiave sociale, dove “la linea del possibile – come avrebbe detto Benedetto Croce – si sposta grandemente mercé la forza inventrice della volontà che veramente vuole”. E quindi, di un messaggio destinato alla riflessione, ed alla conseguente condivisione di valori “non negoziabili” come quelli che suffragano la vera nobiltà degli Uomini migliori e rendono la vita degna di essere vissuta.

 

Annotazioni

(1) – Vando d’Angiolo (18 luglio 1932 – 27 dicembre 2019) è stato un ”self-made man” che ha tradotto in pratica l’assunto della scuola filosofica medievale secondo cui gli uomini si differenziano tra di loro, in primo luogo per il diverso grado di impegno volitivo. Nativo di Azzano (Seravezza), sulle alte pendici del Monte Altissimo, che aveva fornito a Michelangelo il marmo per qualcuna delle sue opere maggiori, ebbe un’infanzia difficile, aggravata dalla perdita del padre Giuliano, scomparso in Jugoslavia durante la plumbea vicenda della Seconda Guerra mondiale (ed insignito della Medaglia di cui alla Legge 30 marzo 2004 n. 92, conferita a Vando ed al fratello Mons. Danilo dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) ma ebbe una guida eticamente importante nel nonno Benvenuto, e soprattutto nella mamma Mite, che fece ogni sacrificio per consentire a Vando e Danilo di compiere gli studi necessari ad acquisire la libertà dal bisogno, unitamente alla cultura idonea a farne uomini liberi. Nonostante le difficoltà economiche e logistiche, Vando conseguì il diploma di ragioniere nel luglio 1951, ed anche in virtù del solerte interessamento materno venne assunto subito dalla Società Henraux di Querceta (Seravezza), leader nell’estrazione e lavorazione del marmo, in cui opera dal 1821: col primo stipendio si iscrisse alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Pisa, iniziando un duro percorso di “lavoratore studente” concluso con la laurea (luglio 1957). Furono anni decisivi per la formazione anche dal punto di vista professionale: infatti, l’esperienza maturata in Henraux fu assai poliedrica, dal momento amministrativo a quello commerciale, ma sempre in stretta connessione con quello tecnico, alle dipendenze di un imprenditore illuminato quale fu il Cav. Gr. Cr. Erminio Cidonio, anche per la sua vocazione al mecenatismo ed alla sinergia tra marmo ed arte in tempi non ancora maturi, tanto che nel 1964 avrebbe dovuto lasciare l’incarico per dedicarsi alla suggestiva esperienza di “Officina”. La sua gestione, peraltro, non aveva saputo offrire a Vando d’Angiolo le opportunità di sviluppo a cui aveva già dimostrato di poter aspirare, tanto da indurlo alle dimissioni, assieme al collega Baldo Frediani, e da costituire assieme a lui un nuovo Soggetto societario, che inizialmente avrebbe dovuto operare nel mondo della consulenza, ma che si sarebbe rapidamente orientato, grazie alle ottime relazioni già acquisite da Vando anche in campo internazionale, dapprima verso l’intermediazione lapidea nell’ambito dei prodotti lavorati, e poi verso l’attività di trasformazione industriale: furono gli anni proficui della “Freda” (acronimo dalle iniziali di cognome dei Soci). Nel maggio 1968, ecco il nuovo balzo, con l’acquisizione di una quota del 16,5 per cento della Campolonghi di Montignoso (Massa) sia da parte di Vando che di Frediani, a seguito delle esigenze di potenziamento operativo e finanziario dell’azienda, di origine argentina, specializzata nel campo sempre più emergente del granito, mentre il secondo passaggio, compiutosi fra il 1975 ed il 1976, vide il raggiungimento della maggioranza da parte di Vando, ferma restando la presenza di Frediani che si sarebbe ritirato nel 1986 per limiti di età, lasciando al Socio la totalità delle azioni. Il resto è storia più recente, con l’acquisizione di due importanti partecipazioni in complessi estrattivi del comprensorio, che faceva seguito a quella, più datata, dell’Olympia Marmi di Pietrasanta ed all’avviamento di una segheria di granito in Sardegna, senza trascurare l’attività nel volontariato che avrebbe portato il Dr. d’Angiolo a ricoprire nel settennio 1978-1985 l’incarico di Consigliere Tesoriere della Federazione Nazionale Pubbliche Assistenze (FNPA). Nel contempo, significativi e prestigiosi furono i tanti riconoscimenti, sia istituzionali che privatistici, da lui conseguiti.

Al riguardo, basti ricordare il conferimento di quelli di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana (1970), di Cavaliere Ufficiale (1977), di Commendatore (1990), ed infine quello di Cavaliere del Lavoro (2007) per gli alti meriti conseguiti nello sviluppo dell’occupazione fino ad alcune centinaia di unità, senza dire di un autentico fiore all’occhiello del Gruppo: quello di non avere mai effettuato licenziamenti, e di non avere mai usufruito degli ammortizzatori sociali. Altrettanto prestigiosa è stata la consegna del “Campano d’Oro” (2013), quale riconoscimento dell’Università di Pisa riservato annualmente al proprio laureato che si sia maggiormente distinto nella vita civile (già conferito, tra gli altri, anche al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi). Tra le realizzazioni di Vando d’Angiolo si deve poi ricordare la “Fondazione Mite Giannetti d’Angiolo” in onore della mamma, avente lo scopo di aiutare i giovani della montagna apuo – versiliese nel loro percorso di studio e di formazione professionale; senza dire degli incarichi rivenienti dal mondo lapideo, tra cui quelli di Presidente del Distretto lapideo locale (2003-2007) e poi, del Comitato Interprovinciale lapideo di Lucca, Massa Carrara e La Spezia.
(2) – Per un significativo inquadramento delle motivazioni poste alla base del sodalizio umano ed estetico con Giuliano Vangi, cfr. Vando d’Angiolo, Un artista, un maestro, un uomo, in “Marmo per l’Architettura – International Stone Magazine”, Gruppo Editoriale Faenza, settembre 1997, pagg. 62-67. A giudizio dell’Autore, nella multiforme opera del Vangi e nella sua creazione di una “serie di autentici capolavori” è facile riconoscere “ l’impronta del Genio”. Ovvero, quel complesso di intuizioni e di valori estetici e civili che erano patrimonio comune, da un lato, dell’artista, e dall’altra, del capitano d’industria.
(3) – L’espressione è sintetica, ma efficace e pertinente. Infatti, Vando d’Angiolo fu sempre attento alle vicende storiche del settore ed agli aspetti umani di una vita davvero dura come quella del cavatore, che un tempo sfiorava i limiti dell’impossibile: al riguardo, giova ricordare il suo ricorrente contributo alla rievocazione storica della lizzatura, quale processo quasi esclusivamente manuale di discesa dei blocchi dalle cave di montagna al piazzale di carico su mezzi di trasporto: momento fortemente rischioso, al pari di tante altre mansioni del lavoro estrattivo. Eppure, gli uomini delle cave, come Vando sapeva perfettamente, erano in grado di esprimere, quali “creditori di anima agli occhi del mondo”, alti livelli di sensibilità culturale (sull’argomento, cfr. Luciano Casella, I Cavatori delle Alpi Apuane, La Nuova Europa Editrice, Carrara 1950).
(4) – Manuale dei marmi graniti e pietre, a cura di Lucio Calenzani e Carlo Montani, Volume secondo, Fratelli Vallardi Editori, Milano 1983 (pag. 150, tav. 6).
(5) – Carlo Montani, XXX Rapporto Marmi e Pietre nel mondo, Casa di Edizioni Aldus, Carrara 2019 (pag. 242, tav. 152). Dal canto suo, l’esportazione lapidea italiana è cresciuta dalle 550 mila tonnellate spedite all’inizio degli anni sessanta ai 2,65 milioni di tonnellate inviate all’estero nel 2018, con un tasso annuo di sviluppo nell’ordine del 6,5 per cento (riferito all’ultimo sessantennio).
(6) – Vando d’Angiolo, Amministratore delegato del Gruppo Campolonghi, Intervista VIP, in “Il Giornale del Marmo”, Gruppo Editoriale Faenza, aprile-maggio 1995, anno XXXI n. 194, pagg. 59-60. La conclusione del colloquio con l’intervistatore ribadiva la convinzione secondo cui “la concorrenza stimola il progresso” mentre quello da risolvere quale atto propedeutico di base resta “un problema di benintesa cultura industriale”. Sulla permanente necessità di ottimizzare la produttività tramite gli investimenti, avrebbe poi

insistito in un’ulteriore intervista di quattro anni dopo, anche nell’ottica di una concorrenza meno squilibrata, e di un confronto basato soprattutto su qualità e servizio anziché sulla gestione perfettibile (cfr. “Il Giornale del Marmo”, Gruppo Editoriale Faenza, gennaio-febbraio 1999, anno XXXV n. 217, pagg. 51-54).
(7) – AA.VV., Il conferimento a Vando d’Angiolo del Campano d’Oro 2013, in “Il Rintocco del Campano”, Rassegna periodica dell’Associazione Laureati Ateneo Pisano, maggio-dicembre 2013, anno XLIII n. 115, Edizioni ETS, pagg. 4-27 (la “conversazione” di Vando, che fa seguito alla “laudatio” del Prof. Carlo Casarosa, è riportata nella parte conclusiva, unitamente all’elenco degli insigniti dal 1971 in poi).
(8) – Il Prof. Terence Kavanagh, Direttore del “Toronto Rehabilitation Centre”, è stato un personaggio di prioritaria importanza terapeutica nella vita di Vando, unitamente al cardiochirurgo Sir Magdi Yacoub di Londra, autore dei due fondamentali interventi.

Grandi grattacieli in marmo

(Foto Ennevi)

Le difficoltà congiunturali ormai croniche, e l’impatto della concorrenza internazionale, non hanno impedito all’industria lapidea italiana di acquisire commesse importanti, destinate a costituire un punto fermo a futura memoria, sia dal punto di vista simbolico sia sul piano dei valori economici. Per citare un esempio di alto significato politico ed estetico, nella Freedom Tower, sorta a Ground Zero dopo il disastro delle Torri Gemelle di New York, è stato impiegato anche il Bianco Statuario delle Alpi Apuane: un materiale dalle nobili tradizioni che risalgono a Michelangelo, e dagli ottimi caratteri decorativi e tecnologici.

Il grattacielo in questione è un grande edificio di 108 piani ed alto 1776 piedi, che con questa cifra si richiama deliberatamente all’anno in cui venne promulgata l’indipendenza statunitense, ed è diventato l’emblema di una forte volontà politica, capace di impegnarsi a fondo nella difesa dei valori proposti dai padri fondatori. Anche per questo, l’utilizzazione del marmo italiano costituisce un prestigioso biglietto da visita, al pari – tanto per fare un altro esempio probante – del Fior di Pesco Carnico che si può ammirare, sempre a New York, negli ascensori dell’Empire State Building.

E’ importante che questi impieghi di alto valore mediatico siano venuti dagli Stati Uniti: il Paese che ha avvertito in modo più consistente gli effetti del ristagno, anche in campo lapideo, tanto da ascrivere un permanente, ragguardevole ritardo di parecchi anni rispetti ai massimi storici dell’import di pietre lavorate. In effetti, un’opera come la Freedom Tower è sempre in grado di indurre un buon effetto moltiplicatore tanto più importante nel comparto lapideo, la cui domanda, relativamente elastica, trova ottimi supporti nelle realizzazioni architettoniche di maggiore impatto quantitativo e qualitativo, e nel caso di specie, anche simbolico, e quindi promozionale. Non a caso, il marmo italiano continua ad essere scelto per impieghi di grande rilievo esemplificativo, sostanzialmente dovunque.

La qualità continua ad essere in grado di fare la differenza, in specie quando si tratta di coniugare al meglio i caratteri tecnologici e l’effetto estetico. In Italia il prezzo medio del prodotto lapideo finito continua a porsi in testa alla graduatoria mondiale, non lontano dagli 80 dollari per metro quadrato equivalente (allo spessore convenzionale di cm. 2) raddoppiando la quotazione planetaria, ma gli spazi di mercato, sia pure a livello di grandi nicchie, sono sempre disponibili, come si evidenzia nel XXX Rapporto Marmo e Pietre nel Mondo, in distribuzione a Marmomac 2019. La congiuntura difficile è tuttora in atto, ma le indicazioni fornite dalla domanda sembrano sottolineare che quello nella qualità è sempre un investimento destinato a rendimenti proporzionali, in quanto coniugato con la promozione della competitività tecnologica. Ciò, con riferimenti prioritari alle imprese esportatrici ed agli impianti che abbiano completato il ciclo di ammortamento.

La necessità di “fare sistema” – più volte sottolineata quale esigenza irrinunciabile sia dal momento imprenditoriale che dalle altre forze sociali – rimane prioritaria, sia attraverso possibili aggregazioni a cui il momento creditizio ha sempre dichiarato di guardare con interesse e con la disponibilità a fornire adeguati supporti finanziari; sia attraverso un rilancio dei Distretti (opportunità strategica troppo a lungo trascurata), nell’ambito di una politica settoriale di ampio respiro che vada a fondarsi sui passaggi salienti di verticalizzazione, valore aggiunto, iniziative promozionali, omogeneità tributaria ed utilizzo ottimale degli scarti.

Marmi e pietre costituiscono una realtà importante dell’economia italiana, che esprime una quota ragguardevole dell’occupazione industriale e dell’export, con quote assai più alte in taluni comprensori come quelli di Carrara e di Verona, dove il lapideo contribuisce alla determinazione del prodotto lordo provinciale in misure leader. Ecco un ottimo motivo in più per salutare con le attenzioni del caso le referenze acquisite dalla pietra italiana, come è accaduto con la Freedom Tower, e per impostare strategie di rilancio funzionali e condivise.

Momenti del ristagno lapideo italiano

Il marmo e le altre pietre di pregio costituiscono una risorsa di rilievo nell’ambito delle strategie di sviluppo avviate da diversi Paesi per la valorizzazione delle proprie risorse: in questa ottica, non sorprende che la produzione mondiale del settore sia cresciuta di almeno quattro volte nel giro degli ultimi 25 anni, con il contributo decisivo dell’interscambio, che interessa una quota altrettanto importante delle disponibilità e la maggioranza del giro d’affari.

Tra i pochi Paesi in controtendenza, il caso dell’Italia è la dimostrazione di quali effetti negativi possano scaturire dalle carenze politiche, con riguardo prioritario all’incapacità di comprendere il ruolo propulsivo del lapideo, diversamente da quanto è accaduto altrove: fattore tanto più condizionante quando si pensi che le riserve sono diffuse su tutto il territorio nazionale, con potenzialità di particolare rilievo nei distretti tradizionali di Toscana e Veneto, ma con opportunità non meno importanti in altre Regioni, tra cui è congruo ricordare Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglie, Sicilia, Sardegna. In questo senso, sia pure con le differenze del caso, non è azzardato parlare di specifiche responsabilità generali, sia a livello nazionale, sia nell’ambito regionale.

E’ passato oltre mezzo secolo da quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite si fece premura di sollecitare lo sviluppo del settore attraverso adeguate misure incentivanti, capaci di promuovere investimenti, in specie laddove altri comparti non avessero la medesima idoneità strategica: ebbene, quella raccomandazione del 1976 è stata palesemente accolta dai maggiori protagonisti lapidei extra-europei, a cominciare da Cina, India, Turchia e Brasile, la cui espansione è stata contraddistinta da tassi talvolta esponenziali, mentre in Italia, a differenza di quanto accade nel resto d’Europa, è venuta meno persino la strategia minima: quella di tutela dell’esistente.

La crisi endemica del mercato interno non ha trovato nell’export, soprattutto nel nuovo millennio, la tradizionale valvola di sicurezza, anche a causa della soverchia parcellizzazione aziendale e della conseguente impossibilità delle piccole imprese, che costituiscono la struttura portante del settore, di operare funzionalmente nelle nuove dimensioni globali del rapporto tra offerta e domanda. Il ristagno del fatturato estero, ormai lontano dai massimi storici, è stato oggetto di un ampio ma velleitario dibattito nelle sedi di competenza. In effetti, non ne è scaturita un’intesa tra il momento politico e le forze sociali circa gli interventi necessari ad invertire la tendenza, in un quadro di programmazione.

La crisi ha coinvolto in misura non meno rilevante anche le importazioni, con particolare riferimento a quelle dei grezzi, che per molti anni avevano alimentato segherie e laboratori con materiali scelti di altra provenienza – in specie silicei – capaci di incrementare tangibilmente il valore aggiunto, potenziando il consumo domestico ed integrando le maggiori forniture all’estero in modo da soddisfare integralmente le esigenze di una progettazione e di una committenza sempre più attente ai parametri qualitativi, non meno che alla variabile economica.

Da questo punto di vista, le cifre sono oltremodo chiare. Nel volgere dell’ultimo ventennio, l’importazione italiana del grezzo è quasi dimezzata, scendendo da 2,1 a 0,9 milioni di tonnellate (consuntivo del 2018) con una discesa sostanzialmente costante a far tempo dal 2006. Ne è scaturita una recessione delle attività trasformatrici che, sommandosi a quella delle produzioni domestiche, comprese quelle tipiche ed esclusive, ha dato luogo a condizioni di diffuso ristagno: ciò, sebbene in qualche caso si sia progressivamente diffusa la tendenza a preferire l’esportazione diretta del blocco di qualità, con vantaggi proporzionali per gli acquirenti esteri ma nello stesso tempo con ulteriori penalizzazioni del valore aggiunto. La perdita di capacità produttiva che ne è scaturita appare difficilmente recuperabile, tanto più che si è tradotta in obsolescenze anticipate, rinvio di manutenzioni, ed alla fine, in cessazioni dell’attività imprenditoriale. E’ certamente cosa buona e giusta confidare nella progettazione di Industria 4.0 ma è altrettanto doveroso tenere conto dei fattori depressivi presenti nel sistema, per esorcizzarli ed espungerli preventivamente.

E’ bene sottolineare che la crisi dell’import costituisce una componente minoritaria di quella lapidea, restando di tutta evidenza che la questione prevalente nell’ambito dell’interscambio è sempre quella dell’esportazione. In effetti, le sorti di marmi e pietre d’Italia sono strettamente legate alle prospettive di collocamento all’estero, in specie del valore aggiunto, ma ciò non significa che questo sia il problema unico: accanto all’import ed al regresso delle attività trasformatrici è congruo tenere conto dl mercato interno, infrastrutture, formazione, investimenti, credito, e via dicendo.

In conclusione, è d’uopo fare appello ad una volontà politica che sia finalmente capace di comprendere l’effetto moltiplicatore implicito nel comparto lapideo, e di operare in conseguenza, d’intesa col mondo imprenditoriale e con quello del lavoro.

Marmomac 2018: Nuovi orizzonti per marmi e pietre nel mondo

La Fiera di Verona, che quest’anno si presenta al proscenio del comparto lapideo con 53 candeline, e con cifre che ne attestano il riconosciuto primato mondiale, è oggetto di motivate attese da parte degli operatori, ed in primo luogo da parte dei marmisti e dei produttori di tecnologie. Come attesta il XXIX Rapporto mondiale, che viene presentato dalla Casa di Edizioni Aldus durante la manifestazione scaligera, anche nel 2017 l’industria del marmo e della pietra ha compiuto un ulteriore, significativo progresso, che si è tradotto in nuovi primati di estrazione, lavorazione ed interscambio, accompagnati da quello dell’impiantistica e dei beni strumentali.

In buona sostanza, si respira un’atmosfera di motivata fiducia, che in alcuni Paesi raggiunge nuovi massimi, come nel caso dell’India, pervenuta al vertice mondiale dell’esportazione quantitativa, mentre in Italia si consolida quello del massimo valore medio per unità di prodotto, che attesta ancora una volta il riconoscimento della sua priorità qualitativa da parte dei mercati.

Dal canto loro, le cifre della rassegna sono molto chiare: si attendono a Verona circa 70 mila operatori provenienti da almeno 150 Paesi di tutto il mondo, mentre il Rapporto Aldus, con il suo tradizionale monitoraggio a tutto campo, conferma – come attesta nella sua prefazione il Presidente della Fiera Maurizio Danese – il proprio ruolo di “fonte esclusiva di informazioni utili per le opzioni strategiche del momento politico, e contestualmente, per le scelte delle aziende”. Ne consegue che le attese più significative sono quelle che riguardano un ulteriore sviluppo degli investimenti, in specie nei Paesi maturi di più antica vocazione lapidea, e l’obliterazione di talune sacche attendiste.

In campo lapideo, diversamente da quanto accade in altri settori contigui, la funzione dell’interscambio, il cui valore mondiale è stimato in oltre 21 miliardi di dollari, cui corrisponde la quota maggioritaria della produzione netta in volume, continua ad essere fondamentale. Di qui, la conferma di quanto siano necessari interventi calibrati di una promozione intelligente e tempestiva, nel cui ambito l’azione di Marmomac è altrettanto prioritaria, anche nel campo dell’informazione professionale e culturale a progettisti e costruttori.

Al di là di tutto questo, è bene sottolineare ancora una volta, come è stato riconosciuto da tempo, e dalle fonti più autorevoli, che marmi e pietre sono materiali di pace, ovvero beni comuni capaci di supportare dovunque le grandi occasioni di sviluppo offerte dalla natura, dalla ricerca e dalla tecnica. Nella nostra epoca, caratterizzata da costanti motivi di insicurezza politica, questa prerogativa del settore diventa a più forte ragione importante, e ribadisce la sua idoneità a promuovere la crescita economica e sociale che è nei voti di tutti. E nello stesso tempo, il richiamo ad agire concretamente che il mondo lapideo rivolge alla volontà politica.

Madagascar: Occasioni di sviluppo lapideo nel terzo mondo

Il mondo del marmo e della pietra, accanto ad un numero relativamente alto di Paesi sviluppati che controllano la maggioranza della produzione e degli impieghi, annovera un’ampia schiera di altri Stati in cui la valorizzazione del materiale lapideo, nonostante la sua riconosciuta idoneità ad avviare strategie di sviluppo, è tuttora agli inizi. Le cause del ritardo sono parecchie, ma le maggiori vanno individuate in mancanza di tradizioni, infrastrutture carenti, difficoltà professionali; e soprattutto nei problemi finanziari che ostacolano gli investimenti pubblici e privati.

Un caso tipico è quello del Madagascar, la grande isola francofona dell’Oceano Indiano (quarta nel mondo per estensione) che nonostante l’indipendenza conquistata nel lontano 1958, una superficie quasi doppia rispetto a quella dell’Italia, ed una popolazione in rapida crescita, quadruplicata in mezzo secolo e pervenuta agli attuali 25 milioni di abitanti con evidenti forti problemi sociali, sta finalmente avviando nuove iniziative per valorizzare le sue pietre, grazie all’intervento della cooperazione estera, ed in particolare italiana, rivolta all’estrazione di materiali esclusivi – soprattutto silicei – in grado di affermarsi con successo sul mercato internazionale.

L’export lapideo malgascio è sempre stato minimo, e generalmente circoscritto ad alcune partite di granito grezzo, con riguardo prioritario a quelli di pigmentazione accesa, meno diffusi nel mondo ed in quanto tali, oggetto di domanda qualitativamente elevata. Basti dire che nel 2017 il flusso in uscita è stato pari a circa 10 mila tonnellate, ovvero allo 0.2 per mille dell’interscambio planetario in volume, mentre vent’anni prima aveva raggiunto le duemila tonnellate, con incidenza analoga e nessun picco intermedio. E’ inutile aggiungere che le spedizioni del lavorato sono ininfluenti, limitandosi a qualche apporto dell’oggettistica artigianale, mentre l’import è quasi inesistente, tanto da essersi fermato, sempre nel 2017, intorno a 40 mila metri quadrati di materiale proveniente dalla Cina e dall’India, con un volume minimo non difforme da quello del 1998 (con la differenza che all’epoca si trattava quasi esclusivamente di marmo italiano).

Altrettanto marginali risultano gli acquisti di tecnologie per la pietra da parte del Madagascar, con un volume d’affari che nel 2017 si è limitato a 240 mila dollari, contro i 320 mila del 2016, e cifre analoghe per gli anni precedenti. In tutta evidenza, non esiste un’attività industriale trasformatrice, rastremando l’utilizzo della pietra lavorata ai monumenti funerari di élite. Del resto, la tradizione dell’edilizia malgascia, sin dai tempi coloniali, è stata orientata prevalentemente al laterizio, stanti le cospicue disponibilità di argille che hanno valso al Madagascar la tradizionale denominazione di Isola Rossa.

In chiave generale, l’industrializzazione malgascia è tuttora episodica: fatta eccezione per qualche iniziativa in campo tessile od alimentare, anche il settore minerario di prima categoria non è stato in grado di valorizzare compiutamente le proprie risorse, all’infuori delle pietre preziose destinate alla gioielleria estera. Ecco un buon motivo in più per auspicare adeguati interventi infrastrutturali in favore dello sviluppo di un grande Paese come il Madagascar e della disponibilità ad investire anche nel settore lapideo dimostrata dalle iniziative della cooperazione privata: in primo luogo, dal “know-how” italiano.

Il settore lapideo in Corea del Sud

Le mutazioni strategiche del settore lapideo, con particolare riguardo a quelle dell’ultimo ventennio, acquistano motivi di specifica evidenza nel caso di Paesi che hanno abdicato al ruolo di produttori per assumere quello di acquirenti del manufatto pronto per la messa in opera. I loro consumi, ben lungi dall’essere in flessione, ne hanno tratto rinnovato impulso, ma le politiche di valorizzazione delle risorse locali sono finite in lista d’attesa, con grande vantaggio per gli esportatori esteri, ed in primo luogo per i nuovi protagonisti del mercato globale.

Da questo punto di vista, appare emblematico quanto è accaduto nella Corea del Sud, i cui approvvigionamenti di lavorati sono aumentati di circa 90 volte, balzando dalle 40 mila tonnellate del 1994 ai due milioni e mezzo del 2007 ed ai 3,6 milioni del 2017, cui corrispondono circa 70 milioni di metri quadrati equivalenti (allo spessore convenzionale di cm. 2). Nel frattempo, le produzioni domestiche hanno fatto registrare continue flessioni, riducendosi a quantitativi sostanzialmente frizionali. Del resto, lo stesso import di grezzi si è contratto fino al punto da costituire circa l’uno per cento di quello quantitativo globale, ed una quota ancora più bassa in valore.

Chi ha beneficiato oltre ogni dire del cambiamento di rotta sono stati gli esportatori cinesi, che sempre nel 2017 hanno soddisfatto quasi tutta la domanda coreana di lavorati lapidei, lasciando all’Italia, alla Spagna ed agli altri esportatori tradizionali qualche fornitura di nicchia, con un valore complessivo non superiore, nel migliore dei casi, al cinque per cento complessivo. Il prezzo medio degli acquisti effettuati in Cina, che era stato di 16,7 dollari per metro quadrato equivalente dieci anni orsono, si è portato a 22,9 nel consuntivo per il 2017, restando inferiore di otto dollari al valore medio dell’export cinese di manufatti, e di ben 50 dollari a quello delle spedizioni italiane corrispondenti, che con oltre 72 dollari conservano la quotazione più alta a livello mondiale.

Le differenze di prezzo assumono rilevanza decisiva, ma si deve aggiungere che il prodotto cinese arriva in Corea nel giro di pochi giorni, mentre quello europeo richiede un tempo di percorrenza superiore di otto volte, e costi in proporzione. Ciò, senza contare la cosiddetta contiguità linguistica con la Cina, ed il fatto che parecchie imprese cinesi hanno investito nella Corea del Nord, creando altrettante iniziative di trasformazione nello specifico intento di servire il mercato sud-coreano.

Le ultime stime circa la produzione di cava nella Corea meridionale evidenziano che i bacini in attività si sarebbero ridotti a poche decine, mentre le unità di trasformazione risultano pari a qualche centinaio, con un’occupazione media di circa dieci addetti per azienda (comunque più che doppia rispetto a quella italiana). Da diversi anni sono state predisposte misure incentivanti, con riguardo prioritario alla semplificazione delle procedure e dell’iter di ottenimento o rinnovo delle concessioni, ma il loro impatto è stato relativo, tanto più che la successiva crisi mondiale ha colpito duramente anche la Corea, con ricadute conseguenti sull’edilizia che nonostante piani di rilancio basati sulla costruzione di 500 mila nuove abitazioni residenziali, nell’ultimo decennio ha fatto registrare una crescita media circoscritta al 2,6 per cento in ragione annua.

Quanto al lapideo, è inutile aggiungere che la concorrenza cinese ha fatto ridurre in misura particolarmente apprezzabile tutti gli investimenti, coinvolgendo anche quelli promozionali, come si è visto quando la fiera settoriale di Seul ha deciso di rinviare a tempi migliori la sua effettuazione. Non meno indicativo, poi, è che qualche iniziativa mista in Corea del Nord, diretta a valorizzare alcuni giacimenti di granito prossimi al confine, sia stata avviata anche da imprese sud-coreane, contribuendo al disgelo ormai in atto fra i due Paesi, ma evidenziando in modo palese che lo sviluppo del lapideo, anche in Estremo Oriente, batte bandiere nuove.

Distretti del marmo e della pietra: un’occasione perduta

Il mondo del marmo e della pietra cresce in fretta, tanto da avere triplicato la produzione e gli impieghi nel giro di una ventina d’anni: merito dell’avanzamento tecnologico che ha permesso di contenere i costi e di automatizzare ogni tipo di lavorazione, comprese quelle artistiche; e della costante rivalutazione del lapideo da parte della progettazione. Non rutti i Paesi, peraltro, hanno progredito in misura proporzionale: alcuni hanno fatto registrare incrementi quasi esponenziali, come nel caso della Cina, dell’India e di altre realtà asiatiche, mentre altri hanno segnato il passo.

Tra i casi di ristagno c’è quello dell’Italia, che non ha conservato le cifre assolute di produzione e di esportazione, ed ha visto fortemente ridimensionate le sue quote di mercato persino nel grezzo, ma soprattutto nel prodotto finito. Le cause maggiori di questa congiuntura sono state analizzate più volte e sono state individuate nella scarsa competitività di alcuni costi, come quelli energetici e finanziari; nella forte parcellizzazione aziendale; nelle difficoltà del credito e degli investimenti; e nelle permanenti carenze di comunicazione e di promozione.

Per porre rimedio a questa situazione, che avrebbe bisogno di adeguati interventi anche dal punto di vista istituzionale, erano stati creati otto Distretti settoriali, cui altri avrebbero potuto aggiungersi, secondo gli auspici di varie zone produttive. A parte quelli trainanti di Carrara e di Verona, non erano stati trascurati comprensori di buona consistenza (Friuli, Lazio, Liguria, Sardegna, Trentino), titolari di note esclusive, importanti anche dal punto di vista del commercio internazionale. La Sardegna, anzi, era presente con due diverse realtà (Gallura e Baronia).

I Distretti, che si auspicava potessero impostare azioni comuni di tutela del prodotto in chiave ambientale, distributiva e tecnologica, e perseguire obiettivi di ripresa ed ulteriore sviluppo, riguardavano un ventaglio merceologico esaustivo che andava dal marmo al granito, o dall’ardesia al porfido, vantando un elevato grado di specializzazione da cui discendeva, fra l’altro, che non fossero concorrenti ma complementari. Si potrebbe aggiungere che il carattere ufficiale dei Distretti pareva in grado di superare un altro fenomeno tipicamente italiano come la frammentazione associativa, caratterizzata, all’epoca, dalla presenza di oltre venti Soggetti operativi, la maggior parte dei quali a carattere locale, con evidenti dispersioni di energie.

Secondo le rilevazioni di competenza i Distretti potevano contare su circa 2.500 Aziende, con un’occupazione di 18.300 unità lavorative, pari, rispettivamente, al 29 ed al 37 per cento delle rispettive cifre globali italiane: gli addetti per Azienda risultavano 7,4 e superavano di oltre un quarto la corrispondente media nazionale (con un livello massimo di 13,2 a Verona, supportato dalla presenza di parecchie Aziende di cospicua dimensione, ed un livello minimo di 3,3 in Gallura, dove l’attività, prevalentemente estrattiva, era affidata a piccole squadre di cavatori). Si trattava, insomma, di una realtà diversificata ma comunque notevole, che costituiva una buona maggioranza relativa, anche se in altri comprensori si poteva giustamente aspirare ad analoghe attenzioni (si pensi ad Ossola, Botticino, Valle del Chiampo, Carso, Travertino Romano, zone tipiche di Puglia e Sicilia).

La logica distrettuale aveva dato buona prova in altri settori produttivi importanti, e quindi non c’era motivo di ritenere che ciò non potesse accadere anche per il marmo e per la pietra. Occorreva, naturalmente, che dalla fase programmatica si passasse rapidamente a quella operativa, traducendo la volontà politica in atti concreti, e dotando i Distretti delle strutture e dei mezzi finanziari indispensabili a portare a compimento, con efficacia e senza discriminazioni, un programma di forte valenza settoriale, tenuto conto delle notevoli incidenze socio-economiche e distributive del lapideo.

Ebbene, nulla di tutto ciò è accaduto: anzi, si è lasciato che i Distretti cessassero quasi di esistere, abbandonati dalla volontà politica, ma anche da quella imprenditoriale e dalle forze sociali, con un tacito “de profundis” indotto dalla rassegnazione, e prima ancora, dalla ritrosia nei confronti di qualsivoglia investimento collegato ad una logica di programma. Nel frattempo, il mondo lapideo ha continuato a correre, e le quote italiane di produzione, interscambio e consumo domestico, per non dire dei livelli occupazionali, si sono ulteriormente ridotte, lasciando agli altri protagonisti la conquista di ogni antico primato italiano (con la sola eccezione superstite di quello tecnologico). Si tratta di un bilancio negativo, cosa che può sempre accadere nella complessa congiuntura internazionale; ma soprattutto sconfortante, perché costituisce la conferma di un approccio dilettantesco, basato sulle chiacchiere, con cui i problemi del comparto lapideo italiano vengono affrontati ad ogni livello, e regolarmente lasciati senza soluzione, innescando gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.

La storia non è maestra di vita, perché altrimenti non si continuerebbe a commettere gli errori del passato, ma quella dei Distretti nazionali del marmo e della pietra merita di essere conosciuta ed approfondita, perché costituisce un ulteriore esempio di occasioni perdute: cosa di cui l’Italia, purtroppo, continua ad essere maestra.

Valori estetici e culturali della pietra

La Scalata foto di Paula Elias

Le tradizioni della pietra si perdono nella notte dei tempi, cosa che ribadisce, assieme alla diffusione in tutto il mondo, la sua straordinaria universalità da riferire anche alla costanza, o meglio alla continuità con cui è stata utilizzata a scopo celebrativo, ancor prima che nelle costruzioni residenziali e nell’edilizia di rappresentanza. Del resto, non è forse vero che nel secondo libro della Bibbia viene data notizia della costruzione di un altare con le colonne di marmo? Evidentemente, il prodotto di natura aveva già acquisito un significato simbolico che poi ha confermato e che ribadisce la sua specifica peculiarità espressiva.

Al di là di questi valori, la pietra fu materiale da costruzione sin dall’antichità. La prima città di cui si conserva memoria storica, Gerico, venne edificata facendone ampio uso strutturale, che precede quello decorativo ma consente di scoprirlo in maniera quasi contestuale. Poi, ebbe ampio spazio nell’architettura religiosa ed in quella militare: in Brasile, ben prima che il primo telaio iniziasse a tagliare i blocchi nello scorcio conclusivo dell’Ottocento, i primi impieghi del granito furono destinati alle fortezze ed alle chiese.

La pietra è cultura, ancor prima di essere un prodotto industriale. Ciò si deve al suo impiego nell’arte plastica, non meno che nell’architettura: anche in questo caso, con tradizioni che risalgono alle civiltà più antiche, come quelle egiziana e greca, da cui sono stati tramandati autentici e sorprendenti capolavori. La pantera in diorite nera che fa bella mostra di sé al Louvre e che risale al terzo millennio avanti Cristo è un esempio particolarmente suggestivo dei livelli di assoluta perfezione che potevano essere raggiunti coi mezzi dell’epoca, oltre tutto lavorando un materiale di straordinaria durezza.

Oggi, l’uso lapideo è diventato ancora più esteso, e per usare un paradosso, ancora più universale, nel senso che ha perduto i caratteri elitari che aveva conservato fino alla metà del secolo scorso, senza rinunciare alle altre prerogative esaltate da uno straordinario progresso tecnico. Basti pensare che secondo note valutazioni compiute dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Siena i consumi di marmi e pietre che si sono avuti negli ultimi 70 anni hanno già superato tutti i precedenti, dai primordi in poi. Come si vede, la democratizzazione degli impieghi non è una trovata promozionale ma una realtà incontestabile.

La cultura della pietra ha trainato il consumo e non viceversa, intendendo quella di marmo, travertino, granito, ardesia e di tante altre pietre che hanno fruito del principio di iterazione dei comportamenti su cui si basa l’assunto pubblicitario. Si tratta di una cultura legata al fenomeno estetico e ad un concetto universale di bellezza ma non meno vincolata al fattore tecnologico, perché senza gli indici di resistenza e di durata che può vantare, per non dire degli altri parametri, il prodotto lapideo di natura non avrebbe potuto ascrivere un successo senza soluzioni di continuità, laddove parecchi materiali concorrenti hanno avuto glorie importanti ma effimere.

Per concludere con un noto aforisma, si può dire che se la pietra non fosse esistita si sarebbe dovuto inventarla. Per fortuna esiste, ed in misura talmente rilevante che nonostante la progressione degli impieghi molti giacimenti sono stati appena “assaggiati” mentre in diversi Paesi trainanti le valutazioni delle riserve accertate da coltivare e da valorizzare hanno permesso di definirne la durata in tempi biblici, talvolta secolari ed in qualche caso millenari. Va da sé che la pietra sarebbe un materiale “inerte” se non fosse intervenuto l’uomo con la sua capacità di scoprirne i pregi e le straordinarie capacità espressive; ma è altrettanto vero che senza il prodotto lapideo l’uomo sarebbe rimasto orfano di una “way of life” che, anche suo tramite, è diventata diversa e certamente migliore.

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