Il mercato maltese

MaltaDopo l’ingresso nell’Unione Europea, si era presunto che Malta potesse valorizzare la sua tipica pietra da costruzione oltre i limiti di un mercato interno quantitativamente modesto, visto che il Paese ospita poco più di 200 mila abitanti, ma assai ricettivo, tanto che il consumo unitario, agevolato dagli impieghi strutturali, si colloca a livelli oltremodo elevati. Invece, la produzione locale non ha trovato la via dell’export, andando a soddisfare la domanda domestica con prezzi competitivi alla luce degli alti rendimenti di cava (agevolati dalle caratteristiche di compattezza della Pietra di Malta) e delle dimensioni puntiformi del mercato, che riducono al minimo il costo dei trasporti.
Malta, invece, si va rilevando una discreta importatrice, soprattutto di lavorati, che nel 2014 hanno interessato circa 12 mila tonnellate di materiale: a conti fatti, oltre 200 mila metri quadrati equivalenti, riferiti allo spessore convenzionale di base, e quindi oltre un metro quadrato per abitante. Un ottimo risultato, che per circa metà delle provenienze è stato soddisfatto dall’Italia, ed in primo luogo dal Mezzogiorno, le cui pietre posseggono vecchie tradizioni d’impiego decorativo e funzionale alla Valletta e negli altri centri dell’Arcipelago. Tuttavia, la concorrenza della Cina è arrivata anche a Malta, visto che si tratta del secondo importante Paese fornitore, mentre gli altri si sono fermati su cifre marginali.
Si deve aggiungere che il consumo unitario di Malta, nel ragguaglio pro capite, è superiore di ben cinque volte alla media mondiale, collocandosi ai primi posti della graduatoria dopo Belgio e Svizzera, e davanti alla stessa Italia: fatte naturalmente salve le ovvie differenze in cifre assolute.
Un movimento di qualche rilievo si è avuto, parimenti, nell’importazione delle lastre grezze di marmo e di granito destinate ai laboratori maltesi, a cui le commesse non mancano, in specie nel campo dell’edilizia turistica e di quella residenziale. Nella fattispecie, il dato del 2014 si riferisce ad acquisti per circa duemila tonnellate. Malta, in definitiva, è un discreto emporio per cui è applicabile il vecchio assunto di “piccolo ma bello”. Naturalmente, dal punto di vista commerciale non è un mercato per tutti, in quanto certamente selettivo: in tutta sintesi, una sorta di nicchia per l’export italiano.

Nuovi mercati della pietra

Foto Daniele Canali

Foto Daniele Canali

La dimensione globale dell’assetto distributivo di settore ha ridotto le distanze e creato nuovi problemi di mercato, perché il mondo è diventato più piccolo e tutti i produttori possono vantare opportunità di collocamento della propria offerta, sostanzialmente dovunque. Ne consegue che la competizione si è fatta più selettiva, e che il problema di combinare al meglio i fattori della gestione acquista connotazioni complesse.
La questione dei nuovi mercati e della relativa ricerca è nel mirino di tutte le imprese organizzate, ma è arrivato il momento di comprendere come si tratti, tutto sommato, di un problema relativamente falso. Se per mercati nuovi si intendono Paesi in cui finora nessuno abbia operato in concreto, è sottinteso che non esistono: in pratica, su 192 Stati sovrani rappresentati ufficialmente alle Nazioni Unite (con la sola eccezione di Taiwan e della Santa Sede), non ne esiste uno che non abbia partecipato all’interscambio lapideo, e nel caso specifico, all’importazione. Lo stesso dicasi per gli impianti e per i materiali di consumo.
Va da sé che la Cina o gli Stati Uniti, con tutto il rispetto per le realtà minori, non hanno le stesse capacità d’acquisto del Bhutan o di Samoa, a parte il fatto che gli approvvigionamenti cinesi si rivolgono in larghissima prevalenza al grezzo, mentre nel Nord America si verifica il fenomeno contrario: ne scaturiscono, secondo logica, orientamenti decisivi sull’offerta dei fornitori. Nondimeno, l’esistenza del mercato globale è fuori discussione, e coinvolge tutti i Paesi, anche se il numero delle offerte concorrenti ha un carattere naturalmente elastico, in funzione delle varie capacità d’acquisto.
Ciò significa che, alla fine, non si pone il problema di andare alla ricerca di nuovi mercati, quanto quello di mettere a loro disposizione un ventaglio più articolato di proposte, di comprendere le loro esigenze effettive, e ben s’intende, di coniugare al meglio qualità e prezzo.
Oggi, chi si limita a vendere il blocco o la lastra grezza non può sperare di avere grandi prospettive in un mercato come quello statunitense: caso mai, dovrà rivolgersi ai Paesi trasformatori, cominciando proprio dalla Cina (che peraltro nel 2014 ha ridotto sensibilmente gli acquisti per valorizzare la produzione domestica), ma ben sapendo che esistono altre situazioni di sviluppo delle attività trasformatrici: ad esempio, quelle di Polonia, Grecia, Oman e della stessa India, da una parte per il granito, e dall’altra per i calcarei di pregio. Analogamente, chi distribuisce il manufatto deve rivolgersi prevalentemente alle economie mature, e per quanto riguarda i produttori dei Paesi sviluppati, pensare all’offerta di merci ad alto valore aggiunto, se non anche di nicchia, dove la qualità presume alti livelli di esperienza, di professionalità, e non ultima, di creatività.
In ogni caso, è impensabile che un’impresa moderna, per quanto organizzata ed in possesso di dimensioni significative, ritenga di poter vendere tutto a tutti. Anche se questo disegno fosse paradossalmente possibile sul piano tecnico, dovrebbe confrontarsi con la necessità di stabilire una scala di priorità in funzione di costi e ricavi. Sia pure tra difficoltà e resistenze, si va diffondendo la prassi di una progressiva specializzazione, in cui coloro che offrono marmette a piano di sega debbono rivolgersi a mercati diversi da quelli dell’arredo-bagno o dei piani da cucina, della funeraria, e via dicendo.
Naturalmente, tutto è relativo. In questo senso, non esistono mercati nuovi in assoluto, ma tutti i mercati possono essere tali per l’una o per l’altra impresa, e specificamente per quelle di più recente comparsa al proscenio internazionale. Affermarlo può sembrare banale, ma non è inutile rammentarlo, in un settore che in diversi casi è tuttora governato da un approccio empirico ai problemi della gestione, se non anche da generose illusioni.

Rottamazione delle Fiere – Il caso di Carrara

 

Da cima Canalgrande (Foto Daniele Canali)

Da cima Canalgrande (Foto Daniele Canali)

Al pari delle infinite cose umane, anche le Fiere hanno un inizio ed una fine, e quelle di marmi e pietre non fanno eccezione. In tempi ancora recenti, la loro proliferazione aveva raggiunto un’accelerazione da primato, ma poi la crisi mondiale ha dato luogo ad un fenomeno selettivo tuttora in atto: diverse manifestazioni hanno chiuso i battenti, mentre altre hanno consolidato le posizioni di leadership che i mercati avevano conferito loro, in maniera inequivocabile.

Non è il caso di fare esempi che gli operatori del lapideo conoscono molto bene, ma si può dire che diversi Paesi, persino dell’Asia, dove pure si concentra la maggioranza assoluta di produzione e distribuzione, hanno perduto la propria Fiera: pensiamo a Giappone, Corea del Sud, Singapore, Il fenomeno, del resto, si estende a diversi esempi significativi dell’America Latina e dell’Europa, Orientale ed Occidentale. Al contrario, le iniziative di sicuro riferimento, come quelle di Verona, Xiamen, Izmir e Vitoria hanno fatto registrare ulteriori progressi, confermando un primato che per le prime due non è azzardato definire mondiale.

Secondo un’espressione ormai di moda, si deve dire che anche le Fiere del lapideo hanno conosciuto la rottamazione, spesso e volentieri con un sospiro di sollievo di operatori nel cui bilancio d’esercizio le spese di partecipazione avevano assunto incidenze abnormi, tanto più opinabili in quanto caratterizzate da ritorni marginali.

Caso mai, spiace che, pur senza arrivare a risultati tanto icastici, la crisi abbia coinvolto una realtà consolidata da secoli come quella di Carrara, la cui Fiera era sorta verso la fine degli anni settanta grazie alla lungimirante intuizione di Giulio Conti ed al ripudio di vecchie concezioni secondo cui il marmo non avrebbe bisogno di promozione, né tanto meno di tirare la volata alla concorrenza. Purtroppo, i ritardi iniziali e le successive scelte strategiche, non sempre vincenti, avrebbero finito per coniugarsi con i problemi del mercato, dando luogo ai risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti: aggravati, sia consentito dirlo, dalle interminabili logomachie tipiche del momento pubblico.

Oggi, il rischio non troppo nascosto è che Carrara faccia la fine dell’asino di Buridano, il quale, per l’incapacità di scegliere il cibo secondo opportunità e convenienza, finì per morire di fame. Intendiamoci: si tratta di un pericolo che le Aziende più avanzate e modernamente organizzate non correranno mai, ma nell’ottica del distretto, e dei suoi valori socio-economici, l’altra faccia della medaglia è palesemente scoperta. Occorrerebbero scelte unitarie che sono state sempre un sogno, già dai tempi in cui la zona apuana aveva un’Organizzazione di categoria diversa da quella del resto d’Italia, sia pure per ragioni storicamente valide; e servirebbe l’idea di considerare la vera promozione scientifica alla stregua di un investimento, non già di una spesa.

A proposito di cose umane, giova aggiungere che anche nelle situazioni più difficili c’è sempre una soluzione: come diceva un antico proverbio, a tutto c’è rimedio, fuori che alla morte. Fuor di metafora, se si vuole evitare il peggio, sarebbe il caso di prendere atto della nuova realtà lapidea del mondo globalizzato, andare alla ricerca di accordi e collaborazioni secondo ragione e convenienza, e non disperdere un grande patrimonio umano e professionale nella cultura del grezzo. E’ ben vero ciò che si affermava in epoche lontane, quando il blocco era considerato oro, ed il lavorato veniva definito piombo, ma oggi non è più “quel tempo e quell’età” perché marmi e pietre sono diventati, per unanime riconoscimento internazionale, un settore strategico destinato al progresso di tutti, e non certo di pochi.

Potenzialità e limiti delle pietre d’Africa

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Le risorse naturali di marmi e pietre sono diffuse dovunque, ma in taluni casi la loro valorizzazione è tuttora marginale. Da questo punto di vista, parlando di grandi aggregati geografici, l’esempio dell’Africa è emblematico: le ricchezze dei suoi giacimenti sono enormi, ma le strozzature che ne precludono lo sviluppo sono ben lungi dall’essere rimosse. In altri settori, anche collaterali, non è così: basti pensare a quello dei diamanti, in cui la produzione africana, guidata da Botswana e Congo, esprime la maggioranza assoluta (ma nella fattispecie non esiste la parcellizzazione tipica del lapideo, perché le miniere sono gestite in regime quasi monopolistico).

Nel campo della pietra, le tradizioni africane sono fra le più antiche, come attestano le grandi opere egiziane ed il livello molto avanzato che le tecniche estrattive avevano raggiunto in epoca storica.  E’ una referenza che non basta, tanto che la quota di mercato mondiale di marmi e pietre dell’Africa è attestata su livelli assai modesti. Non mancano Paesi di buon livello quantitativo e qualitativo, come lo stesso Egitto, sviluppato anche a livello di lavorazione, ed il Sudafrica, titolare di alcune esclusive assai prestigiose, ma altrove, se si eccettua l’attività di cava in qualche giacimento di alto valore merceologico e cromatico, ad iniziativa europea e più spesso italiana, come in Angola, Madagascar, Namibia e Zimbabwe,  manca una struttura imprenditoriale di settore che possa definirsi competitiva.

C’è di più: qualche iniziativa mista di verticalizzazione non ha dato i risultati in cui si era confidato, sia per i limiti delle infrastrutture e delle strutture professionali, sia per talune difficoltà contingenti come quelle per l’ottenimento delle concessioni, per gestire i trasporti e per acquisire tecnologie o pezzi di ricambio in tempi funzionali.

Negli ultimi decenni si sono organizzate importanti conferenze internazionali con lo scopo di promuovere forme di collaborazione con imprese di Europa, America od Asia, e con il supporto di forti Organizzazioni istituzionali, comprese quelle di espressione ONU, ma alla resa dei conti le difficoltà di cui si diceva, l’incertezza del diritto e la stessa instabilità politica hanno finito per esaltare i limiti dell’Africa lapidea, a danno delle sue potenzialità.

E’ inutile aggiungere che l’iniziativa locale sconta negativamente le carenze in parola, cui si aggiungono quelle di natura finanziaria, a più forte ragione vincolanti. Esiste qualche eccezione, come in alcuni Paesi dell’Africa mediterranea, ma si tratta di fattispecie circoscritte che confermano la regola.

Si potrebbe aggiungere che la struttura operativa è rimasta spesso di tipo post-coloniale, sia pure non senza contributi relativamente apprezzabili allo sviluppo socio-economico delle zone interessate. Tuttavia, il peggioramento della congiuntura mondiale, non ancora eliso se non parzialmente, e la progressiva riduzione dei fondi resi disponibili a favore della cooperazione internazionale, soprattutto nel bilancio dei Paesi sviluppati dell’Occidente, hanno precluso un ampliamento delle suddette prospettive ed il loro perseguimento in termini conformi agli auspici.

L’Africa lapidea può aspettare, sia pure suo malgrado, perché possiede riserve di alto valore tecnologico e cromatico, e di forte consistenza quantitativa, destinate ad essere valorizzate in una logica di esportazione ma prima ancora nelle politiche locali di sviluppo. Tuttavia, sarebbe bene comprendere meglio che queste forme di valorizzazione possono essere, e non solo nel campo del marmo e della pietra, un antidoto a flussi migratori indiscriminati ed ai problemi che ne derivano nelle economie mature.

Professionalità e know-how

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Marmi e pietre confermano regolarmente il loro appeal competitivo perché, pur venendo da lontano, riescono ad ottimizzare regolarmente, ad ogni latitudine e longitudine, i livelli di pur alta competenza professionale che hanno raggiunto. Ciò, con riguardo specifico alle lavorazioni speciali, che sono una conquista degli ultimi decenni e costituiscono l’effetto più visibile del controllo numerico computerizzato, applicato al lapideo. Naturalmente, non c’è solo questo: i progressi che si sono compiuti nel risanamento, in specie delle lastre, nella produzione economica di spessori sottili e nella crescita dei rendimenti che ne è scaturita, sono un altro grande capitolo che illustra il forte progresso compiuto dal settore.

Mezzo secolo fa, sarebbe stato difficile il solo pensare alla fresatura curvilinea, alla produzione seriale di pezzi complessi come i piani da bagno e da cucina, alla robotizzazione di lavori artistici e funerari, alle lavorazioni ad acido, al water-jet,  e via dicendo. Ciò, senza nulla togliere ai pavimenti a piano di sega od a quelli a correre, ai battiscopa, od alla valorizzazione degli scarti in palladiane od altre opere di recupero. La frontiera del possibile si è spostata largamente in avanti, anche nel settore lapideo, grazie al progresso tecnico, ma nello stesso tempo grazie alla capacità ed alla disponibilità professionale del marmista, che lungi dall’essere quel campione di conservatorismo di cui si è molto parlato, il più delle volte a sproposito, ha dimostrato un alto grado di idoneità alle innovazioni ed all’apprendimento di un know-how talvolta rivoluzionario.

La pietra ha espresso doti di duttilità che per molti aspetti erano insospettate, e gli orizzonti dell’impiego si sono ampliati a dismisura, sia nell’ambito strutturale sia in quello delle finiture di superficie, ed il suo utilizzo ha cessato, ormai definitivamente, dall’essere un fenomeno elitario: in caso contrario, non sarebbe stato possibile triplicare il volume degli utilizzi nel giro di un decennio ed accrescere produzione e volumi d’affari, nella loro espressione mondiale, assai più rapidamente di quanto sia accaduto nel sistema economico. La sinergia fra il momento tecnologico e quello professionale è stata determinante.

A livello di posa, l’industrializzazione del settore non è stata da meno, andando progressivamente ad elidere le sacche residue di stasi. Si pensi ai grandi rivestimenti esterni ed alla prassi ormai normale delle pareti ventilate; ai rivestimenti interni capaci di valorizzare caratteri del lapideo in precedenza ignorati o comunque teorici, come la trasparenza di materiali pregiati quali gli alabastri o gli onici; od alla stessa ricostruzione di blocchi a forma programmata di parallelepipedo, e con incidenza largamente minoritaria di leganti, che ha permesso di realizzare manufatti di grande formato, con ovvie economie di installazione.

Oggi, il know-how non è più un optional né tanto meno un orpello promozionale. Al contrario, è un patrimonio di conoscenze professionali, indispensabile a mantenere la competitività; in altre parole, è un ventaglio di attitudini ottimizzate che si acquista a prezzo di un impegno cosciente, anche se la dimestichezza coi nuovi strumenti informatici applicati alle macchine è diventata maggioritaria, e nelle giovani generazioni tendenzialmente universale, quanto meno nei Paesi sviluppati. Non a caso il know-how può essere addirittura oggetto d’interscambio, soprattutto nella versione applicata alle macchine ed alle strutture impiantistiche.

L’industria lapidea contemporanea ha progredito alacremente grazie alle competenze professionali, tanto più degne di nota in quanto riferite ad un organico globale in crescita talvolta rapida, come è accaduto in Cina e negli altri Paesi in via di sviluppo; ed all’ampia disponibilità a recepire un know-how di forte impatto sul governo dei costi, ed in ultima analisi, sul processo di democratizzazione degli impieghi, ben lungi dall’essere compiuto ma obiettivamente avanzato.

Ambiente e pietra

Una coesistenza possibile

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Le rilevanti strozzature congiunturali degli ultimi anni hanno fatto accantonare, almeno in apparenza, il problema della compatibilità ambientale di cave e laboratori lapidei, ma il problema ecologico sussiste sempre. Anzi, lo sviluppo costante della produzione e conseguentemente degli scarti, lo ha reso più stringente, specialmente nell’ottica di medio e di lungo periodo. Le disposizioni legislative cambiano parecchio da un Paese all’altro, al pari della sensibilità pubblica e privata; ma il diverso grado di attenzione finisce per creare ulteriori discriminazioni, in aggiunta a quelle che derivano dai costi di base ed in particolare da quelli del lavoro e dell’energia.

La questione, a parte talune pregiudiziali estetiche, dure a morire sebbene abbiano fatto il loro tempo, riguarda in modo prioritario le discariche. Dato che una quota maggioritaria del prodotto è destinata ancora oggi a scarto e che una quota dei cascami di trasformazione comporta problemi di trattamento, è chiaro che tutto il mondo lapideo finisce per essere coinvolto dalla carenza, generalmente diffusa, di luoghi destinati allo scarico attrezzato, con problemi di continuità estrattiva, di movimentazione e di lay-out. Nei Paesi sviluppati queste strozzature sono diventate causa non marginale di svantaggio nei confronti degli altri, perché lo smaltimento è reso difficile ed oneroso da diversi vincoli che in qualche caso, più frequente in Europa, sono diventati quasi paralizzanti.

In Italia il problema è ricorrente e lungi dall’essere risolto in chiave strategica, mentre prosegue l’affidamento a misure tampone che lo ripropongono regolarmente a brevi scadenze, come accade in talune Regioni leader, ma in Grecia la situazione non è meno compromessa, con alcune cave che hanno finito per essere chiuse. In altri casi è stata affrontata in modo meno episodico, come in Portogallo, dove il livello elevato degli scarti e la configurazione orografica delle maggiori zone estrattive hanno creato esigenze di stoccaggio a cui si è provveduto, almeno in parte, per iniziativa pubblica, nell’ambito di una buona collaborazione col momento privato.

Marmi e pietre possono coesistere con l’ambiente, a patto che esistano normative agili e funzionali corredate da regolamenti esecutivi chiari e realistici, da cui emerga con precisione dove si può operare, se non altro per garantire la certezza del diritto, sempre necessaria, a cominciare dalle cave, dove in caso contrario ogni investimento diventa problematico. E’ inutile dire che bisogna rinunciare a pregiudiziali assolute come quelle di chi vorrebbe cancellare l’estrazione e la trasformazione dalla faccia del territorio, senza pensare che l’inquinamento indotto dal lapideo è minimo rispetto a quello procurato da altri settori e senza dire che la modificazione dell’ambiente è stata logica conseguenza di ogni insediamento umano a carattere stanziale.

L’ostracismo nei confronti della pietra è privo di motivazioni, salvo quelle rivenienti dalla demagogia, o peggio da concorrenze più o meno interessate. Non si vuol dire che la produzione del materiale di natura possa diventare motivo di richiamo turistico, anche se non mancano, in questo senso, casi di valorizzazione dei bacini estrattivi in Italia, negli Stati Uniti o nell’antico Egitto, per non parlare del recupero culturale e ludico di talune cave abbandonate; si deve affermare, tuttavia, che l’industria lapidea è stata ritenuta idonea ad avviare e potenziare processi di sviluppo, come è stato ufficialmente statuito da mezzo secolo, e che in questa ottica la sua continuità e la sua espansione non sono un optional, ma un vero e proprio obbligo, ferma restando la necessità di valutare quali siano gli interessi socialmente prevalenti e di promuovere una regolamentazione equa, che faccia salvi quelli di tutti.

L’ecologia non deve essere un “imbroglio”, come fu detto anni or sono non senza qualche apprezzabile fondamento. Al contrario, deve essere un valore che si ponga come tale attraverso la definizione dei suoi limiti, nella stessa misura in cui l’impresa ha il diritto-dovere di perseguire un fondamentale obiettivo socio-economico. A cominciare dall’impresa lapidea, i cui contenuti umani e professionali non sono certamente inferiori a quelli altrui.

Pietra senza frontiere

Duemila metri quadrati al minuto

Cava di Gioia lavorazione (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Cava di Gioia lavorazione (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Nella storia dell’uomo, l’uso di marmi e pietre in architettura, arti plastiche e funeraria è consolidato in una tradizione senza eguali, che si può definire universale, non conoscendo limiti di spazio e di tempo. Oggi, nonostante problemi congiunturali spesso ricorrenti, lo sviluppo lapideo continua, fino al punto da avere raddoppiato produzione e consumi mondiali nel giro di circa 15 anni, con un volume che, secondo valutazioni attendibili, ha superato i duemila metri quadrati al minuto (riferiti allo spessore convenzionale di cm. 2).

La materia prima proviene, nella misura di due terzi, da Paesi diversi da quello di posa in opera, dando vita ad un interscambio altrettanto crescente, che fa della pietra un prodotto senza frontiere nel vero senso della parola. Si tratta di un fattore di successo indiscutibile, ma prima ancora, della conferma che il marmo è un materiale di pace, idoneo come pochi ad avvicinare i popoli attraverso la cooperazione economica e la cultura.

La pietra si colloca in una prospettiva di espansione consapevole, in cui la sinergia tra economie mature e Paesi in via di sviluppo si coniuga positivamente coi valori spirituali che esprime da sempre. Basti pensare che circa un quinto del consumo mondiale trova collocazione nel settore funerario, alimentato da sentimenti di “pietas” che superano ogni confine e dalla certezza che l’urna sia strumento di una lieta speranza, se non addirittura di “gioia” per chi lascia “eredità d’affetti” secondo la felice espressione di Ugo Foscolo.

Non a caso, esistono epigrafi vecchie di secoli se non addirittura di millenni che esaltano quei valori, con particolare riguardo a giustizia, temperanza, altruismo, amore per la famiglia e per la patria, sottolineandone l’universalità capace di trionfare su ogni particolarismo e diventando una vera e propria scuola di vita: come avrebbe detto Orazio, “non omnis moriar”.

In questo senso, il significato spirituale della pietra si arricchisce di ulteriori contenuti in cui la tradizione cristiana perfeziona interpretazioni già presenti nella cultura classica e nelle esperienze più antiche, comprese quelle dei primordi: non mancano incisioni rupestri che dimostrano come gli stessi uomini delle caverne, ignari del ferro ma antesignani dell’arte plastica in pietra, non fossero alieni dall’affidarle messaggi destinati a durare per sempre.

Se non altro per questo, e per la sua capacità di trascendere frontiere fisiche e morali, marmi e pietre hanno prerogative tutte loro, che possiamo riassumere nella capacità di parlare al cuore dell’uomo.

Nel nome della Pietra

Contributo filologico per la storia del marmo

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

La civiltà umana non avrebbe potuto fare a meno della pietra: un materiale che ne ha segnato l’evoluzione millenaria, dapprima con utilizzi meramente strutturali e poi, anche decorativi. Il primo agglomerato urbano di cui si conservi memoria storica, quello di Gerico, fu caratterizzato da buoni livelli di lavorazione lapidea, già nel nono millennio avanti Cristo. Del resto, nella tradizione biblica la pietra aveva assunto caratteri prescrittivi che avrebbe conservato nella sua lunga storia: basti ricordare che nell’Esodo sono di pietra le tavole su cui vennero scolpiti i fondamenti della Legge, e sono di onice le colonne dell’altare che Mosè, in ossequio alla volontà divina, provvide a costruire nella nuova Dimora.

Oggi, secondo valutazioni di “Stone Network”, le tipologie di marmi e pietre oggetto di coltivazione e di utilizzo nel mondo sono almeno 24 mila: tutte con un proprio nome ed una propria fisionomia cromatica e tecnologica. La crescita esponenziale del settore, particolarmente impetuosa nell’ultimo sessantennio, quando è stato estratto un volume superiore a quello di tutte le epoche precedenti messe assieme, ha rafforzato la necessità di individuare i materiali prodotti con l’attribuzione del nome, ma tale esigenza si era già manifestata nell’antichità classica.

La stessa definizione di “marmo” ha radici molto antiche, attribuibili, secondo un’interpretazione quantitativamente prevalente, alla semantica greca “marmareos”, aggettivo qualificativo che illustra la lucentezza, e quindi l’ottima lucidabilità della materia (3). La pietra, in sostanza, fu sempre considerata un prodotto necessario, ma nello stesso tempo, nobile: non a caso, il primo lapidario di cui si abbia memoria è quello assiro, predisposto all’inizio dell’ultimo millennio avanti Cristo. Ad Aristotele, invece, si deve la distinzione tra minerali metallici e prodotti di cava, ed a Teofrasto di Efeso, contemporaneo dello Stagirita, la prima nomenclatura lapidea, composta da 65 tipologie merceologiche.

Un salto di qualità sarebbe stato compiuto nel primo secolo dell’Era volgare con Plinio il Giovane, la cui “Historia Naturalis” dedica l’ultimo dei 37 volumi alla mineralogia, comprensiva di marmi e pietre (6); proseguito qualche decennio più tardi con Dioscoride Pedanio, che nella sua “Materia Medica” volle passare in rassegna duecento materiali lapidei utili a fini terapeutici, illustrandone le caratteristiche salienti. Un migliaio di anni più tardi sarebbe toccato a Marbodo, Vescovo di Rennes, compilare un “Lapidario” in esametri latini che ebbe una notevole fama, tanto da essere tradotto in ben sette lingue.

E’ inutile rammentare la fortuna che il marmo ebbe in epoca rinascimentale ed in quella illuminista, alla luce del suo successo nella grande architettura e nell’arte plastica, sia in Italia, sia nei grandi Stati europei e nelle civiltà orientali. Nel Cinquecento, l’abate Agostino Del Riccio sostenne come il marmo avesse un’anima (7), perché l’artista è in grado di trasferirla nella statua e di farle assumere messaggi e significati umani, mentre due secoli più tardi Goethe avrebbe scritto nelle “Elegie Romane” che il marmo si può ammirare, ma nello stesso tempo ascoltare, perché la sua voce viene dall’antichità ed illustra  glorie e suggestioni di un grande passato: si riferiva ai materiali del Foro, non solo italiani, in quanto Roma ne aveva fatto grandi acquisti in Africa e nell’Asia Minore.

Nel 1828 comparve il “Manuale delle pietre antiche” di Faustino Corsi, che elencava 140 tipologie nominative di litoidi utilizzati dalle civiltà classiche e ne descriveva dettagliatamente i caratteri cromatici: si trattava di pietre italiane, francesi, elleniche, egiziane, orientali, ed il loro numero si incrementava notevolmente con quelle nuove, conosciute all’epoca del medesimo Corsi, sfiorando le 200 e distinguendo in modo corretto i marmi dai graniti, o meglio, i materiali calcarei da quelli silicei (8). Era un ulteriore progresso anche sul piano glottologico e metodologico, perché i nomi antichi venivano indicati accanto alla rispettiva traduzione in volgare.

Lo sviluppo della produzione lapidea sarebbe diventato esponenziale nella seconda metà del Novecento,  a fronte dello straordinario progresso tecnico, culminato nell’avvento del diamante nelle segherie ed in altre lavorazioni, e di una vera industrializzazione. I materiali conosciuti, da centinaia, diventarono rapidamente migliaia, come  nell’opera  di Anton Herbeck, in cui  si catalogarono oltre  duemila  esemplari lapidei scavati in tutto il mondo, mentre nel “Manuale dei Marmi Pietre e Graniti” degli anni ottanta, quelli menzionati nelle varie schede regionali raggiunsero i 1200, limitatamente alle sole produzioni italiane.

Nella nomenclatura antica in lingua latina, riproposta anche dal Corsi, il modulo di comando è costituito, in genere, dalla semantica “marmor” od in alternativa da “lapis”, con l’aggiunta della zona di provenienza. Da sempre, il nome delle pietre è quanto meno duplice, ed i casi di individuazioni per mezzo di una sola parola sono piuttosto rari. Questa prassi si è consolidata nelle epoche successive,  con un ventaglio molto più ampio di specifiche.

Oggi, il modulo di base indica prevalentemente il colore, ovvero  la speciale tipologia merceologica subordinata (alabastro, ardesia, arenaria, beola, diorite, limestone, quarzite, serizzo, serpentino, sienite, trachite, travertino), mentre l’attributo può riferirsi all’origine geografica,  alla tonalità prevalente (arabescato, chiaro, filettato, fiorito, macchiato, mandorlato, paglierino, scuro, serpeggiante, tigrato, e così via), e sempre più spesso, a nomi di fantasia, compresi quelli di riferimento femminile o religioso.

Nel panorama del mondo lapideo, alcuni materiali di straordinaria fortuna possono vantare una diffusione generalizzata della loro notorietà, a prescindere dalle specificazioni. E’ il caso del Pentelico, il marmo del Partenone e delle sculture di Fidia; del travertino, la pietra di Roma dall’antichità ai nostri giorni; del Carrara, “il marmo” per antonomasia, senza bisogno di alcun corollario.

Lo stesso può dirsi per tanti altri materiali, antichi o meno: ad esempio, per la pietra del Carso, coltivata da millenni e particolarmente legata ai fasti architettonici dell’Impero austro-ungarico; per il Botticino, caro al cuore degli italiani per l’impiego nell’Altare della Patria e nel sacello del Milite Ignoto; per Luz de Compostela, legato alle coinvolgenti suggestioni del Camino di Santiago ed a prestigiosi utilizzi persino in gioielleria; per il Bianco di Makrana, la materia prima di un grande patrimonio dell’umanità come il Taj Mahal, il “monumento all’amore” di Agra. Si tratta, peraltro, di eccezioni che confermano la regola: un numero largamente maggioritario di marmi e pietre si richiama a fattori originali e talvolta casuali.

I colori della natura lapidea sono generalmente variegati, e spesso di non facile definizione, in quanto giustapposti in un giuoco cromatico che ne costituisce ad un tempo il fascino ed il pregio: senza fare torti ad alcuno, si pensi a materiali esclusivi come il Fior di Pesco Carnico od il Rosso Francia, a taluni brecciati,  a varie tipologie di alabastro e di onice. Proprio per questo, la logica degli opposti pretende la valorizzazione delle pietre monocromatiche, nel qual caso il marmo od il granito in questione assumono la qualifica di “assoluto”: è il caso di talune varietà del Nero Africa o del Bianco Sivec di Macedonia, ma anche di ardesie.

In alcune occasioni, la specificazione geografica è deviante, perché non corrisponde alla reale origine del materiale. Anche in questo caso, qualche esempio può testimoniare l’esistenza di un fenomeno più diffuso: il Botticino non è sempre quello classico del Bresciano; il Juparanà Florence è un granito che, diversamente da quanto dice il nome, si estrae nel Nord-est del Brasile; il Labrador non è soltanto canadese, ma si scava anche in Scandinavia ed in misura minore in Italia; il St. Louis è un granito portoghese tipico, al di là della denominazione sassone; il Giallo Veneziano è un’altra esclusiva brasiliana che ha mutuato il suo nome da Nova Venecia, fondata nella seconda metà dell’Ottocento dagli emigranti italiani; ed il Verde Guatemala, al di là delle origini storiche, è un marmo di pregio proveniente dal Rajasthan indiano.

Oggi, l’Europa ha perduto da tempo il vecchio primato produttivo a vantaggio prioritario dei grandi Paesi emergenti, ed in primo luogo della Cina (titolare di cinquemila cave) e dell’ India, che hanno saputo misurarsi concretamente nell’industrializzazione e nella distribuzione, e nella stessa scelta dei nomi.

Ebbene, tra le migliaia di riferimenti proposti al mercato lapideo internazionale si possono segnalare alcune denominazioni originali e talvolta conturbanti: in Cina, è il caso di Imperial Concubine Red (Shanxi), Sesame White (Liaoning), Celestial Red (Jiangxi), Leopard Eyes (Anhui), Leopard Skin (Sichuan), Dark Bleu Stars (Guangdong), Snow Plum (Fujian), Rosy Clouds (Hubei), Oriental Cherry (Zhejiang).  Dal canto suo, fra le tante varietà, soprattutto di graniti, l’India, secondo produttore mondiale dopo la stessa Cina, propone materiali come Cat Eyes, Cobra Skin, Desert Glory, Ghibli Gold, Indian Juparanà, Love Apple, Paradiso Classico, Shiva Gold, Tiger Skin, Yellow Panther, White Mystic.

Insomma, la fantasia non manca, spaziando dall’ispirazione al mondo animale, alle imitazioni di esclusive altrui ed al richiamo di valori estetici, se non anche della “dolce vita”, nel quadro di un’inventiva fantasiosa non priva di interesse filologico, sebbene finalizzata al perseguimento di scopi commerciali ed alla necessità di differenziare produzione e distribuzione nel quadro di un contesto sempre più competitivo.

In questa ottica, una ricerca più esauriente circa i nomi di marmi e pietre all’inizio del nuovo millennio non sarebbe priva di interesse sul piano scientifico e culturale, in quanto idonea a mettere a fuoco correlazioni imprevedibili tra il materiale più antico del mondo e l’inconscio collettivo, ma già note a livello motivazionale se è vero che la nomenclatura lapidea è stata mutuata in modo assai ampio, oltre che meramente iterativo, dai produttori di materiali d’imitazione, ed enfatizzata nei loro messaggi “ingannevoli”, in quanto finalizzati a disinformare la clientela, e peggio ancora, il progettista.

A conclusione, resta da aggiungere che marmi e pietre hanno dimostrato nei secoli, attraverso la loro stessa nomenclatura, di essere idonei come nessun altro materiale a costituire la “sostanza delle forme eterne” cantata dal Poeta, e nello stesso tempo ad ottimizzare la “way of life” dell’uomo moderno nella grande architettura, nell’edilizia residenziale, nell’arredamento e negli stessi impieghi celebrativi. E’ un carattere ribadito in maniera probante nell’ultimo quindicennio, che ha visto raddoppiare la produzione e gli impieghi mondiali, e trovare anche nei nomi un afflato umano davvero singolare per un prodotto dell’industria: forse, nell’antica teoria di Agostino Del Riccio, secondo cui il marmo avrebbe un’anima, c’è un bisogno inconsapevole, assieme ad una “lieta speranza” e certamente, ad una fede.

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