Ambiente e pietra

Una coesistenza possibile

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Le rilevanti strozzature congiunturali degli ultimi anni hanno fatto accantonare, almeno in apparenza, il problema della compatibilità ambientale di cave e laboratori lapidei, ma il problema ecologico sussiste sempre. Anzi, lo sviluppo costante della produzione e conseguentemente degli scarti, lo ha reso più stringente, specialmente nell’ottica di medio e di lungo periodo. Le disposizioni legislative cambiano parecchio da un Paese all’altro, al pari della sensibilità pubblica e privata; ma il diverso grado di attenzione finisce per creare ulteriori discriminazioni, in aggiunta a quelle che derivano dai costi di base ed in particolare da quelli del lavoro e dell’energia.

La questione, a parte talune pregiudiziali estetiche, dure a morire sebbene abbiano fatto il loro tempo, riguarda in modo prioritario le discariche. Dato che una quota maggioritaria del prodotto è destinata ancora oggi a scarto e che una quota dei cascami di trasformazione comporta problemi di trattamento, è chiaro che tutto il mondo lapideo finisce per essere coinvolto dalla carenza, generalmente diffusa, di luoghi destinati allo scarico attrezzato, con problemi di continuità estrattiva, di movimentazione e di lay-out. Nei Paesi sviluppati queste strozzature sono diventate causa non marginale di svantaggio nei confronti degli altri, perché lo smaltimento è reso difficile ed oneroso da diversi vincoli che in qualche caso, più frequente in Europa, sono diventati quasi paralizzanti.

In Italia il problema è ricorrente e lungi dall’essere risolto in chiave strategica, mentre prosegue l’affidamento a misure tampone che lo ripropongono regolarmente a brevi scadenze, come accade in talune Regioni leader, ma in Grecia la situazione non è meno compromessa, con alcune cave che hanno finito per essere chiuse. In altri casi è stata affrontata in modo meno episodico, come in Portogallo, dove il livello elevato degli scarti e la configurazione orografica delle maggiori zone estrattive hanno creato esigenze di stoccaggio a cui si è provveduto, almeno in parte, per iniziativa pubblica, nell’ambito di una buona collaborazione col momento privato.

Marmi e pietre possono coesistere con l’ambiente, a patto che esistano normative agili e funzionali corredate da regolamenti esecutivi chiari e realistici, da cui emerga con precisione dove si può operare, se non altro per garantire la certezza del diritto, sempre necessaria, a cominciare dalle cave, dove in caso contrario ogni investimento diventa problematico. E’ inutile dire che bisogna rinunciare a pregiudiziali assolute come quelle di chi vorrebbe cancellare l’estrazione e la trasformazione dalla faccia del territorio, senza pensare che l’inquinamento indotto dal lapideo è minimo rispetto a quello procurato da altri settori e senza dire che la modificazione dell’ambiente è stata logica conseguenza di ogni insediamento umano a carattere stanziale.

L’ostracismo nei confronti della pietra è privo di motivazioni, salvo quelle rivenienti dalla demagogia, o peggio da concorrenze più o meno interessate. Non si vuol dire che la produzione del materiale di natura possa diventare motivo di richiamo turistico, anche se non mancano, in questo senso, casi di valorizzazione dei bacini estrattivi in Italia, negli Stati Uniti o nell’antico Egitto, per non parlare del recupero culturale e ludico di talune cave abbandonate; si deve affermare, tuttavia, che l’industria lapidea è stata ritenuta idonea ad avviare e potenziare processi di sviluppo, come è stato ufficialmente statuito da mezzo secolo, e che in questa ottica la sua continuità e la sua espansione non sono un optional, ma un vero e proprio obbligo, ferma restando la necessità di valutare quali siano gli interessi socialmente prevalenti e di promuovere una regolamentazione equa, che faccia salvi quelli di tutti.

L’ecologia non deve essere un “imbroglio”, come fu detto anni or sono non senza qualche apprezzabile fondamento. Al contrario, deve essere un valore che si ponga come tale attraverso la definizione dei suoi limiti, nella stessa misura in cui l’impresa ha il diritto-dovere di perseguire un fondamentale obiettivo socio-economico. A cominciare dall’impresa lapidea, i cui contenuti umani e professionali non sono certamente inferiori a quelli altrui.

Pietra senza frontiere

Duemila metri quadrati al minuto

Cava di Gioia lavorazione (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Cava di Gioia lavorazione (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Nella storia dell’uomo, l’uso di marmi e pietre in architettura, arti plastiche e funeraria è consolidato in una tradizione senza eguali, che si può definire universale, non conoscendo limiti di spazio e di tempo. Oggi, nonostante problemi congiunturali spesso ricorrenti, lo sviluppo lapideo continua, fino al punto da avere raddoppiato produzione e consumi mondiali nel giro di circa 15 anni, con un volume che, secondo valutazioni attendibili, ha superato i duemila metri quadrati al minuto (riferiti allo spessore convenzionale di cm. 2).

La materia prima proviene, nella misura di due terzi, da Paesi diversi da quello di posa in opera, dando vita ad un interscambio altrettanto crescente, che fa della pietra un prodotto senza frontiere nel vero senso della parola. Si tratta di un fattore di successo indiscutibile, ma prima ancora, della conferma che il marmo è un materiale di pace, idoneo come pochi ad avvicinare i popoli attraverso la cooperazione economica e la cultura.

La pietra si colloca in una prospettiva di espansione consapevole, in cui la sinergia tra economie mature e Paesi in via di sviluppo si coniuga positivamente coi valori spirituali che esprime da sempre. Basti pensare che circa un quinto del consumo mondiale trova collocazione nel settore funerario, alimentato da sentimenti di “pietas” che superano ogni confine e dalla certezza che l’urna sia strumento di una lieta speranza, se non addirittura di “gioia” per chi lascia “eredità d’affetti” secondo la felice espressione di Ugo Foscolo.

Non a caso, esistono epigrafi vecchie di secoli se non addirittura di millenni che esaltano quei valori, con particolare riguardo a giustizia, temperanza, altruismo, amore per la famiglia e per la patria, sottolineandone l’universalità capace di trionfare su ogni particolarismo e diventando una vera e propria scuola di vita: come avrebbe detto Orazio, “non omnis moriar”.

In questo senso, il significato spirituale della pietra si arricchisce di ulteriori contenuti in cui la tradizione cristiana perfeziona interpretazioni già presenti nella cultura classica e nelle esperienze più antiche, comprese quelle dei primordi: non mancano incisioni rupestri che dimostrano come gli stessi uomini delle caverne, ignari del ferro ma antesignani dell’arte plastica in pietra, non fossero alieni dall’affidarle messaggi destinati a durare per sempre.

Se non altro per questo, e per la sua capacità di trascendere frontiere fisiche e morali, marmi e pietre hanno prerogative tutte loro, che possiamo riassumere nella capacità di parlare al cuore dell’uomo.

Nel nome della Pietra

Contributo filologico per la storia del marmo

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

(Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

La civiltà umana non avrebbe potuto fare a meno della pietra: un materiale che ne ha segnato l’evoluzione millenaria, dapprima con utilizzi meramente strutturali e poi, anche decorativi. Il primo agglomerato urbano di cui si conservi memoria storica, quello di Gerico, fu caratterizzato da buoni livelli di lavorazione lapidea, già nel nono millennio avanti Cristo. Del resto, nella tradizione biblica la pietra aveva assunto caratteri prescrittivi che avrebbe conservato nella sua lunga storia: basti ricordare che nell’Esodo sono di pietra le tavole su cui vennero scolpiti i fondamenti della Legge, e sono di onice le colonne dell’altare che Mosè, in ossequio alla volontà divina, provvide a costruire nella nuova Dimora.

Oggi, secondo valutazioni di “Stone Network”, le tipologie di marmi e pietre oggetto di coltivazione e di utilizzo nel mondo sono almeno 24 mila: tutte con un proprio nome ed una propria fisionomia cromatica e tecnologica. La crescita esponenziale del settore, particolarmente impetuosa nell’ultimo sessantennio, quando è stato estratto un volume superiore a quello di tutte le epoche precedenti messe assieme, ha rafforzato la necessità di individuare i materiali prodotti con l’attribuzione del nome, ma tale esigenza si era già manifestata nell’antichità classica.

La stessa definizione di “marmo” ha radici molto antiche, attribuibili, secondo un’interpretazione quantitativamente prevalente, alla semantica greca “marmareos”, aggettivo qualificativo che illustra la lucentezza, e quindi l’ottima lucidabilità della materia (3). La pietra, in sostanza, fu sempre considerata un prodotto necessario, ma nello stesso tempo, nobile: non a caso, il primo lapidario di cui si abbia memoria è quello assiro, predisposto all’inizio dell’ultimo millennio avanti Cristo. Ad Aristotele, invece, si deve la distinzione tra minerali metallici e prodotti di cava, ed a Teofrasto di Efeso, contemporaneo dello Stagirita, la prima nomenclatura lapidea, composta da 65 tipologie merceologiche.

Un salto di qualità sarebbe stato compiuto nel primo secolo dell’Era volgare con Plinio il Giovane, la cui “Historia Naturalis” dedica l’ultimo dei 37 volumi alla mineralogia, comprensiva di marmi e pietre (6); proseguito qualche decennio più tardi con Dioscoride Pedanio, che nella sua “Materia Medica” volle passare in rassegna duecento materiali lapidei utili a fini terapeutici, illustrandone le caratteristiche salienti. Un migliaio di anni più tardi sarebbe toccato a Marbodo, Vescovo di Rennes, compilare un “Lapidario” in esametri latini che ebbe una notevole fama, tanto da essere tradotto in ben sette lingue.

E’ inutile rammentare la fortuna che il marmo ebbe in epoca rinascimentale ed in quella illuminista, alla luce del suo successo nella grande architettura e nell’arte plastica, sia in Italia, sia nei grandi Stati europei e nelle civiltà orientali. Nel Cinquecento, l’abate Agostino Del Riccio sostenne come il marmo avesse un’anima (7), perché l’artista è in grado di trasferirla nella statua e di farle assumere messaggi e significati umani, mentre due secoli più tardi Goethe avrebbe scritto nelle “Elegie Romane” che il marmo si può ammirare, ma nello stesso tempo ascoltare, perché la sua voce viene dall’antichità ed illustra  glorie e suggestioni di un grande passato: si riferiva ai materiali del Foro, non solo italiani, in quanto Roma ne aveva fatto grandi acquisti in Africa e nell’Asia Minore.

Nel 1828 comparve il “Manuale delle pietre antiche” di Faustino Corsi, che elencava 140 tipologie nominative di litoidi utilizzati dalle civiltà classiche e ne descriveva dettagliatamente i caratteri cromatici: si trattava di pietre italiane, francesi, elleniche, egiziane, orientali, ed il loro numero si incrementava notevolmente con quelle nuove, conosciute all’epoca del medesimo Corsi, sfiorando le 200 e distinguendo in modo corretto i marmi dai graniti, o meglio, i materiali calcarei da quelli silicei (8). Era un ulteriore progresso anche sul piano glottologico e metodologico, perché i nomi antichi venivano indicati accanto alla rispettiva traduzione in volgare.

Lo sviluppo della produzione lapidea sarebbe diventato esponenziale nella seconda metà del Novecento,  a fronte dello straordinario progresso tecnico, culminato nell’avvento del diamante nelle segherie ed in altre lavorazioni, e di una vera industrializzazione. I materiali conosciuti, da centinaia, diventarono rapidamente migliaia, come  nell’opera  di Anton Herbeck, in cui  si catalogarono oltre  duemila  esemplari lapidei scavati in tutto il mondo, mentre nel “Manuale dei Marmi Pietre e Graniti” degli anni ottanta, quelli menzionati nelle varie schede regionali raggiunsero i 1200, limitatamente alle sole produzioni italiane.

Nella nomenclatura antica in lingua latina, riproposta anche dal Corsi, il modulo di comando è costituito, in genere, dalla semantica “marmor” od in alternativa da “lapis”, con l’aggiunta della zona di provenienza. Da sempre, il nome delle pietre è quanto meno duplice, ed i casi di individuazioni per mezzo di una sola parola sono piuttosto rari. Questa prassi si è consolidata nelle epoche successive,  con un ventaglio molto più ampio di specifiche.

Oggi, il modulo di base indica prevalentemente il colore, ovvero  la speciale tipologia merceologica subordinata (alabastro, ardesia, arenaria, beola, diorite, limestone, quarzite, serizzo, serpentino, sienite, trachite, travertino), mentre l’attributo può riferirsi all’origine geografica,  alla tonalità prevalente (arabescato, chiaro, filettato, fiorito, macchiato, mandorlato, paglierino, scuro, serpeggiante, tigrato, e così via), e sempre più spesso, a nomi di fantasia, compresi quelli di riferimento femminile o religioso.

Nel panorama del mondo lapideo, alcuni materiali di straordinaria fortuna possono vantare una diffusione generalizzata della loro notorietà, a prescindere dalle specificazioni. E’ il caso del Pentelico, il marmo del Partenone e delle sculture di Fidia; del travertino, la pietra di Roma dall’antichità ai nostri giorni; del Carrara, “il marmo” per antonomasia, senza bisogno di alcun corollario.

Lo stesso può dirsi per tanti altri materiali, antichi o meno: ad esempio, per la pietra del Carso, coltivata da millenni e particolarmente legata ai fasti architettonici dell’Impero austro-ungarico; per il Botticino, caro al cuore degli italiani per l’impiego nell’Altare della Patria e nel sacello del Milite Ignoto; per Luz de Compostela, legato alle coinvolgenti suggestioni del Camino di Santiago ed a prestigiosi utilizzi persino in gioielleria; per il Bianco di Makrana, la materia prima di un grande patrimonio dell’umanità come il Taj Mahal, il “monumento all’amore” di Agra. Si tratta, peraltro, di eccezioni che confermano la regola: un numero largamente maggioritario di marmi e pietre si richiama a fattori originali e talvolta casuali.

I colori della natura lapidea sono generalmente variegati, e spesso di non facile definizione, in quanto giustapposti in un giuoco cromatico che ne costituisce ad un tempo il fascino ed il pregio: senza fare torti ad alcuno, si pensi a materiali esclusivi come il Fior di Pesco Carnico od il Rosso Francia, a taluni brecciati,  a varie tipologie di alabastro e di onice. Proprio per questo, la logica degli opposti pretende la valorizzazione delle pietre monocromatiche, nel qual caso il marmo od il granito in questione assumono la qualifica di “assoluto”: è il caso di talune varietà del Nero Africa o del Bianco Sivec di Macedonia, ma anche di ardesie.

In alcune occasioni, la specificazione geografica è deviante, perché non corrisponde alla reale origine del materiale. Anche in questo caso, qualche esempio può testimoniare l’esistenza di un fenomeno più diffuso: il Botticino non è sempre quello classico del Bresciano; il Juparanà Florence è un granito che, diversamente da quanto dice il nome, si estrae nel Nord-est del Brasile; il Labrador non è soltanto canadese, ma si scava anche in Scandinavia ed in misura minore in Italia; il St. Louis è un granito portoghese tipico, al di là della denominazione sassone; il Giallo Veneziano è un’altra esclusiva brasiliana che ha mutuato il suo nome da Nova Venecia, fondata nella seconda metà dell’Ottocento dagli emigranti italiani; ed il Verde Guatemala, al di là delle origini storiche, è un marmo di pregio proveniente dal Rajasthan indiano.

Oggi, l’Europa ha perduto da tempo il vecchio primato produttivo a vantaggio prioritario dei grandi Paesi emergenti, ed in primo luogo della Cina (titolare di cinquemila cave) e dell’ India, che hanno saputo misurarsi concretamente nell’industrializzazione e nella distribuzione, e nella stessa scelta dei nomi.

Ebbene, tra le migliaia di riferimenti proposti al mercato lapideo internazionale si possono segnalare alcune denominazioni originali e talvolta conturbanti: in Cina, è il caso di Imperial Concubine Red (Shanxi), Sesame White (Liaoning), Celestial Red (Jiangxi), Leopard Eyes (Anhui), Leopard Skin (Sichuan), Dark Bleu Stars (Guangdong), Snow Plum (Fujian), Rosy Clouds (Hubei), Oriental Cherry (Zhejiang).  Dal canto suo, fra le tante varietà, soprattutto di graniti, l’India, secondo produttore mondiale dopo la stessa Cina, propone materiali come Cat Eyes, Cobra Skin, Desert Glory, Ghibli Gold, Indian Juparanà, Love Apple, Paradiso Classico, Shiva Gold, Tiger Skin, Yellow Panther, White Mystic.

Insomma, la fantasia non manca, spaziando dall’ispirazione al mondo animale, alle imitazioni di esclusive altrui ed al richiamo di valori estetici, se non anche della “dolce vita”, nel quadro di un’inventiva fantasiosa non priva di interesse filologico, sebbene finalizzata al perseguimento di scopi commerciali ed alla necessità di differenziare produzione e distribuzione nel quadro di un contesto sempre più competitivo.

In questa ottica, una ricerca più esauriente circa i nomi di marmi e pietre all’inizio del nuovo millennio non sarebbe priva di interesse sul piano scientifico e culturale, in quanto idonea a mettere a fuoco correlazioni imprevedibili tra il materiale più antico del mondo e l’inconscio collettivo, ma già note a livello motivazionale se è vero che la nomenclatura lapidea è stata mutuata in modo assai ampio, oltre che meramente iterativo, dai produttori di materiali d’imitazione, ed enfatizzata nei loro messaggi “ingannevoli”, in quanto finalizzati a disinformare la clientela, e peggio ancora, il progettista.

A conclusione, resta da aggiungere che marmi e pietre hanno dimostrato nei secoli, attraverso la loro stessa nomenclatura, di essere idonei come nessun altro materiale a costituire la “sostanza delle forme eterne” cantata dal Poeta, e nello stesso tempo ad ottimizzare la “way of life” dell’uomo moderno nella grande architettura, nell’edilizia residenziale, nell’arredamento e negli stessi impieghi celebrativi. E’ un carattere ribadito in maniera probante nell’ultimo quindicennio, che ha visto raddoppiare la produzione e gli impieghi mondiali, e trovare anche nei nomi un afflato umano davvero singolare per un prodotto dell’industria: forse, nell’antica teoria di Agostino Del Riccio, secondo cui il marmo avrebbe un’anima, c’è un bisogno inconsapevole, assieme ad una “lieta speranza” e certamente, ad una fede.

Il ruolo del marmo nel progresso mondiale

di Carlo Montani

Cave di Gioia, Carrara (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

Cave di Gioia, Carrara (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

L’idoneità del settore lapideo ad avviare politiche di sviluppo dove altre industrie non potrebbero avere analoga capacità tecnologica e cromatica è fuori discussione, ed è stata riconosciuta nelle sedi più qualificate, a cominciare dall’ONU, con apposita Dichiarazione del 1976. In precedenza, il IX Congresso dell’industria marmifera europea aveva attirato l’attenzione dei Governi nazionali e regionali sul ruolo trainante della pietra anche in chiave sociale, ed aveva costituito la Federazione internazionale del settore, con lo scopo di promuovere uno sviluppo più organico del comparto (1964).

Oggi, sono tanti i comprensori, o meglio i Paesi in cui la valorizzazione di questa importante risorsa naturale ha permesso di conseguire risultati occupazionali e sociali di buona consistenza: nel solo momento di lavorazione, vale a dire dalla segheria in poi, la forza lavoro impiegata nel lapideo, in un campione di 40 Paesi costituito dall’Unione Europea e dai primi 12 Stati extra-europei leader, ha raggiunto, secondo fonti ONU, i due milioni di unità.

Il progresso è incontestabile, avendo tratto largo vantaggio dalla diffusione sostanzialmente universale delle riserve, ed in misura non inferiore, dal forte avanzamento tecnologico. Ciò, sebbene in parecchi Paesi la politica di ricerca sia tuttora limitata (soltanto in pochi casi la conoscenza del territorio è davvero esaustiva, come in alcuni Stati europei, nell’area del Golfo od in Turchia), facendo presumere che altre importanti risorse possano essere condotte alla vista e quindi alla coltivazione.

In alcuni casi, lo sviluppo è stato esponenziale. Negli ultimi 20 anni, la produzione ed i consumi mondiali sono più che raddoppiati, senza dire che approfondite indagini scientifiche (condotte dal Dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Siena) hanno permesso di rilevare come il volume dei marmi e delle pietre scavati nel mondo dal 1950 in poi sia stato superiore a quello di tutte le epoche precedenti messe insieme. Chi si ostinasse a pensare che il settore lapideo svolge un ruolo di retroguardia, nel quadro di concessioni ad un prestigio retorico ed anacronistico, è servito.

Per comprendere quanto siano ampie le dimensioni del settore, basti dire che la produzione mondiale del 2013, al netto degli scarti di cava, è stata pari ad oltre 135 milioni di tonnellate, metà delle quali destinate ad un fiorente interscambio (XXV Rapporto Marmi e Pietre nel mondo).

Il progresso assicurato dal comparto, a parte quello economico e tecnologico, spazia in un contesto più ampio e non è alieno dal volare alto. Oggi, la progettazione più moderna e competente ha riscoperto gli utilizzi del marmo, del granito e delle altre pietre ornamentali sia nell’edilizia di rappresentanza, sia in quelle civili ed economiche, grazie a caratteri funzionali ed espressivi di grande competitività. Vale la pena di ribadire che le economie di durata e di manutenzione dei lapidei sono tali da motivare ampiamente qualche differenza di prezzo, che sulle prime aveva suscitato talune riserve.

In altri termini, il progresso conseguito da almeno un secolo nel modo di vivere dell’uomo contemporaneo ha trovato un fondamento significativo nella democratizzazione degli impieghi dei materiali più nobili, a cominciare dal marmo. Ciò che un tempo era riservato ad una schiera molto ristretta di fruitori ha finito per diventare accessibile quasi a chiunque: motivo di più per sottolineare come il consumo medio per abitante, che nel mondo di oggi ammonta a 230 metri quadrati (riferiti allo spessore convenzionale di cm. 2) per mille, con punte massime nell’Europa mediterranea di oltre un metro pro-capite, sia destinato ad aumentare, potenziando un trend in ascesa che è in atto da decenni, con la sola eccezione del 2009.

A prescindere dall’angolatura di valutazione, marmi e pietre sono strumenti di progresso, senza dire che, come è stato rilevato in importanti manifestazioni ufficiali, sono materiali di pace