marmi e pietre dell’Italia nord-orientale: Ruolo e prospettive della risorsa lapidea in Friuli-Venezia Giulia

La Scalata foto di Paula Elias

Un recente dibattito a proposito dei marmi del Carso, con tanto di aspetti occupazionali ed ambientali, e delle odierne attese economiche di un settore dalle tradizioni millenarie, hanno richiamato l’attenzione sulle sorti di un’attività tuttora importante per la Regione Friuli-Venezia Giulia, ma troppo spesso dimenticata, tanto da risultare in forte controtendenza rispetto alla dinamica mondiale, ed in flessione piuttosto significativa anche nel ragguaglio italiano.
Eppure, le sue esclusive sono di consolidata fama internazionale, a cominciare dalle tante varietà della Pietra di Aurisina, estratta sin dall’epoca romana ed utilizzata, fra l’altro, nei grandi lavori austriaci ed ungheresi dell’età asburgica, ma anche in opere nazionali importanti come le stazioni di Milano e Tarvisio ed il Tempio Voltiano di Como. Lo stesso dicasi per il Fior di Pesco di Forni Avoltri, che ha trovato posto in tante prestigiose commesse italiane ed estere, a cominciare dalla stazione di Firenze e dall’Empire State Building, o per altre pietre friulane di buona consistenza quanto a riserve, e di tecnologia competitiva, ma di estrazione limitata se non anche sospesa, quali Ceppo norico, Grigio carnico, Nero del Vallone, Pietra piasentina, Rosso Ramello (un materiale nel cui bacino dell’Alto Vajont fu giovane cavatore Mauro Corona, che in alcuni suoi libri vi ha dedicato pagine assai suggestive).
Le tradizioni del Friuli-Venezia Giulia sono importanti anche dal punto di vista professionale. Basti pensare a quelle musive, che hanno trovato nuovi motivi di apprezzamento e di successo grazie all’Istituto del Mosaico di Spilimbergo, unico nel suo genere: infatti, la Scuola ospita allievi che provengono da tutti i continenti, e persegue risultati di notevole significato economico, felicemente coniugati con quelli estetici, costituendo un fiore all’occhiello dell’Italia lapidea, sebbene non molto conosciuto.
Avuto riguardo alle dimensioni del mercato internazionale ed alle risorse disponibili in Regione, sarebbe auspicabile che marmi e pietre locali possano fruire di attenzioni che ne consentano un rilancio conforme alle potenzialità: ciò, sia dal punto di vista delle politiche estrattive, oggetto di troppi vincoli operativi, sia sul piano della promozione industriale e distributiva, dove gli incentivi istituzionali sono andati progressivamente in desuetudine.
La critica relativa alla costante emorragia occupazionale che va compromettendo un patrimonio irripetibile è certamente da condividere, perché nel settore lapideo tecnologia e tradizione si traducono in apporti fondamentali di forza lavoro. Tuttavia, non serve lamentare il progressivo disimpegno della manodopera giovanile, oggetto di recenti richiami, in quanto trattasi di un effetto e non di una causa. Serve, invece, sensibilizzare la volontà politica in termini aggiornati e sottolineare il contributo che marmi e pietre possono portare, sostanzialmente dovunque, ad uno sviluppo non effimero.

I fratelli Lumière a Carrara

Nel 1897 i Fratelli Lumière commissionarono un video ad un loro agente girato a Carrara nella cornice delle cave per ritrarre la Ferrovia Marmifera. In particolare il filmato fu registrato in località Fantiscritti. La pellicola è stato ritrovata a Bruxelles dal regista Fabio Wuytiak.

 

 

MADE IN ITALY FABIO WUYTACK Belgio / 2004 / 29′ Nel film il giovane regista Fabio Wuytack riscopre un filmato storico dei fratelli Lumière che è stato girato cento anni fa a Carrara e decide di riportarlo nel luogo dove anche Michelangelo veniva a cercare la sua ispirazione ed i suoi blocchi di marmo, per compiere un’accurata indagine. Inizia così un’avventura attraverso le Alpi Apuane che dà vita ad una ricerca cinematografica, ricca di scene “da commedia dell’arte”, ma anche un viaggio affascinante che porta l’autore alle sue stesse radici. Con l’aiuto non solo dei cavatori, che tramandano nei secoli il duro rapporto dell’uomo con il marmo, ma anche di un “sinistro cinefilo” e di tanti altri originali personaggi, viene ricercato il set dimenticato dai fratelli Lumière, con il suo “tunnel misterioso

Regista FABIO WUYTACK Nasce nel 1981 ad Anversa in Belgio. Scultore, nel 1999 riceve una borsa di studio per perfezionare la sua tecnica a Carrara, la capitale della scultura marmorea. Le sue sculture sono state premiate, tra gli altri al simposio internazionale della Bassa Normandia. Dal 2000 decide di studiare e dedicarsi al cinema, specializzandosi in particolare modo nel documentario. I suoi lavori sono stati proiettati e premiati all’International Documentary Film Festival Vision du Rèel a Nyon e al Festival di Cannes.

Uomini delle cave

CanalgrandeSono passati 60 anni da quando un cavatore di Carrara ebbe “qualcosa da dire” sui bacini marmiferi della zona apuana e molto suggestivamente lo disse in versi ricordando che il “piazzale ampio e pulito” davanti alle bancate non risponde soltanto ad esigenze funzionali, ma anche a quelle della sicurezza e della salvaguardia ambientale; e nello stesso tempo, invitando gli estimatori del prodotto di natura a non dimenticare che il marmo aveva coinvolto una parte talmente ampia della vita nelle cave, da far diventare “creditori di anima davanti al mondo” tutti coloro che a vario titolo vi lavorano.

All’epoca, gli occupati nell’attività estrattiva del comprensorio ammontavano ad alcune migliaia di unità, mentre oggi si sono ridotti alle centinaia: lo sviluppo tecnico e la meccanizzazione avanzata hanno dato luogo a forti incrementi della produttività, ma la vita dei cavatori, come attestano le cronache recenti, è sempre a forte rischio. Eppure, i loro valori non sono stati compromessi dalla flessione occupazionale, né dalla scomparsa di alcune figure tipiche come quelle degli addetti alla lizzatura; al contrario, sono stati oggetto di riconoscimenti straordinari, a cominciare dall’udienza che Papa Giovanni Paolo II concesse ai cavatori il 15 marzo 1980, non avendo dimenticato che nella fase di preparazione al sacerdozio aveva lavorato per un anno in un bacino estrattivo polacco, dove era stato testimone della morte di un compagno, alla cui memoria avrebbe dedicato un componimento poetico destinato a diventare famoso.

Al cavatore di Carrara sono stati riservati importanti riconoscimenti artistici come quelli di Romolo Bondi, anch’egli ex-operaio delle Apuane ed ottimo conoscitore della loro realtà professionale: come si è detto, nei suoi quadri c’è una rappresentazione “severa e pensosa” del mestiere, con quella tipica divisa fatta di “pantaloni frusti, camicia di cotone aperta sul collo, cappello o copricapo realizzato con un fazzoletto annodato agli angoli, scarponi di cuoio con lacci mal messi, e giacca sulle spalle per ripararsi la schiena sudata all’ora del pasto” (Pandolfi).

Gli esempi potrebbero continuare, ma tutto conferma che agli uomini delle cave competono sempre attenzioni particolari, che si sono andate estendendo ad altre zone ed altri Paesi, come dimostrano le grandi opere del fattore umano nei bacini statunitensi della Georgia e del Vermont, che al pari di quelli apuani sono diventati motivo di attrazione turistica. Nondimeno, le cave di Carrara conservano un fascino straordinario ed attenzioni ampiamente motivate dai rischi del mestiere, tanto da trovare spazio, anche recentemente, nei telegiornali italiani di massimo ascolto.

Queste ritrovate attenzioni nei confronti degli uomini di cava costituiscono un fatto in buona misura positivo, che può contribuire alla rivalutazione del mestiere nell’ottica collettiva. In tanti Paesi extra-europei il lavoro estrattivo è tuttora lontano dal poter fruire pienamente dei grandi vantaggi indotti dallo sviluppo tecnico, sia sul piano professionale che su quello della produttività: del resto, la presenza dei minori in numerose cave africane, asiatiche e latino-americane è una triste realtà permanente che dovrebbe promuovere il comune impegno per combattere un fenomeno senz’altro ingiustificabile sul piano etico, e quanto meno anacronistico in chiave giuridica. Sta di fatto che, come fu scritto a Carrara negli anni cinquanta, i cavatori sono sempre “creditori di anima” e che – anche per questo – hanno diritto ad una considerazione che trascende ogni tempo ed ogni luogo.

Marmo apuano: cento anni dopo

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

La sola industria marmifera per cui sono disponibili dati omogenei di lungo periodo relativi a produzione e vendite, è quella apuana. In merito, è interessante rilevare che un secolo fa, e precisamente nel 1910 (alla vigilia della guerra di Libia e di quella mondiale – da cui il comparto lapideo sarebbe stato fortemente condizionato in senso negativo) le cave del distretto produssero 362 mila tonnellate di marmo, mentre le spedizioni pervennero a 345 mila e l’export a 286 mila. Ne consegue che l’incidenza delle vendite sul volume estratto fu pari al 95 per cento, mentre quella dell’export sul totale delle partenze superò agevolmente i quattro quinti.
Blocchi e semilavorati costituivano la maggioranza del traffico in uscita ma non si deve credere, alla luce di questi numeri, che lo scarto di lavorazione tendesse a zero. In realtà, il materiale di risulta abbondava anche allora, ma bisogna aggiungere che una parte delle spedizioni proveniva dagli stoccaggi del quadriennio precedente (il massimo di 387 mila tonnellate era stato ascritto nel 1907) e per il poco che potevano contare all’epoca, da materiali di altra provenienza. Quanto alla distribuzione, le cifre pongono in luce il forte sottodimensionamento del mercato interno rispetto a quelli esteri.
Oggi, la produzione del comprensorio ammonta al quadruplo di quella che si era registrata un secolo prima: visti i progressi altrui, non è un risultato che consenta di alzare il gran pavese. Caso mai si deve sottolineare il forte incremento della produttività, perché all’epoca lavoravano nelle cave circa 12 mila addetti, fra cui alcune centinaia di ragazzi al di sotto dei 15 anni: il rapporto era di 35 tonnellate/uomo per anno, contro un livello attuale cresciuto di almeno 50 volte.
E’ inutile stracciarsi le vesti per dire che il progresso tecnico ha abbattuto i livelli occupativi di cava nella misura di oltre nove decimi, incentivando l’impiego di manodopera nelle fasi a valle, che oggi supera i quattro quinti degli effettivi; in compenso, sono notevolmente migliorate le condizioni di lavoro. Non si dimentichi che proprio un secolo fa si dovette piangere la terribile sciagura dei Bettogli, rimasta nella memoria storica di Carrara e della sua industria marmifera come una delle più tragiche in assoluto (ma l’olocausto continua anche nel nuovo millennio: cosa inaccettabile alla luce dell’avanzamento esponenziale delle tecnologie).
Si diceva del mercato interno, che ancora oggi è meno importante dell’export, sebbene l’impulso alla democratizzazione dei consumi ed il contenimento dei prezzi dovuto alle enormi migliorie abbiano accresciuto notevolmente la sua importanza e quella di un’adeguata promozione anche in Italia.
A tale proposito si impongono alcune considerazioni che possono sembrare banali ma che non esimono dal meditare con un minimo di attenzione sulle sorti e sulle prospettive del settore, quanto meno nella zona apuana. L’incremento della produzione dal 1910 ad oggi è stato di quasi tre punti in ragione annua, mentre altrove si sono bruciate le tappe in tempi molto più brevi. Ciò, senza dire che un secolo fa si riusciva ad estrarre e vendere un volume inferiore di sole quattro volte a quello attuale in condizioni operative molto più difficili, sia dal punto di vista delle infrastrutture che da quello dei trasporti; e senza poter contare sugli strumenti promozionali oggi disponibili, per cominciare dalle fiere e finire ad internet. E’ tutto regolare, oppure c’è qualcosa che non va?
Quello apuano non può essere assunto quale modello di un’espansione mondiale che si è giovata di straordinari fattori propulsivi, sia nell’ambito del mercato che in quello della tecnica. Tuttavia, almeno nell’ottica italiana ne emerge una condizione di vischiosità che caratterizza anche il lungo periodo e che è bene aver presente quale fattore di una crescita oggettivamente limitata, se si vuole evitare la perdita di ulteriori punti sui mercati internazionali, ed alla fine, anche su quello interno.

I marmi del Partenone

(Ron Waller / Wikipedia)

(Ron Waller / Wikipedia)

La storia dei fregi del Partenone, opera immortale di Fidia, asportati all’inizio dell’Ottocento e mai restituiti, è un esempio di comportamenti contrari all’etica civile, tanto più necessaria quando i protagonisti, come accade per Grecia e Gran Bretagna, appartengono all’Europa. Eppure, sarebbero stati sufficienti un minimo di buona volontà e l’abbandono di posizioni antistoriche.
Tutto ebbe origine nel 1802, quando Sir Thomas Bruce, Conte di Elgin ed Ambasciatore britannico in Turchia (all’epoca titolare della sovranità sui territori ellenici) si fece autorizzare, con un documento di validità per lo meno dubbia, ad asportare dal massimo monumento ateniese 50 lastre, 15 metope ed altri pezzi minori con cui avrebbe voluto arricchire la propria dimora.
Elgin era innamorato del marmo, materiale “tanto bello quanto indipendente dai mutamenti della moda” come aveva scritto nel 1801 aggiungendo che gli “ornamenti lapidei non risultano mai eccessivi”: tuttavia questi buoni sentimenti non gli impedirono di effettuare il “prelievo” con mezzi approssimativi fatti arrivare dall’Inghilterra e con carente professionalità, tanto che alcuni pezzi vennero irrimediabilmente danneggiati mentre altri andarono perduti a causa di un naufragio.
Anni dopo, Elgin, vista l’opportunità di lucrare un buon affare coi marmi di Fidia, decise di rinunciare agli “ornamenti in marmo” del suo castello e di venderli al Governo inglese avviando contatti col British Museum e col Primo Ministro Sir Spencer Perceval. Inizialmente, fece una richiesta di 62.440 sterline, che a suo dire erano pari alle spese affrontate per il distacco materiale delle opere e per il trasporto in Inghilterra, ma dopo cinque anni di trattative finì per accontentarsi di 30 mila, cifra che nel 1816 venne fissata definitivamente con delibera della Camera dei Comuni.
La compravendita ebbe luogo alla condizione, richiesta da Elgin, che l’intera collezione fosse esposta perennemente nelle sale del British Museum dove si trova tuttora, e che lui stesso ed i suoi eredi venissero chiamati a far parte del Consiglio dei curatori. Nessun accenno ad una pur teorica restituzione alla Grecia impegnata nella lotta per la propria indipendenza, ed al fatto che Byron aveva definito l’operazione di Elgin come un autentico furto.
Il marmo di Fidia, Bianco Pentelico dell’Attica, ha 2500 anni di vita ed un valore simbolico che trascende secoli e millenni: quando venne posto in opera con la partecipazione di un giovane Socrate in veste di scultore e scalpellino, Sofocle era all’apice della gloria e scriveva la tragedia di Antigone mentre si ergevano le colonne e le trabeazioni. Se non altro per questo si dovrebbe parlare di un diritto morale alla restituzione, negato nel 1985 da David Wilson, direttore del British Museum, perché sarebbe stato “un disastro infinitamente più grave della minaccia di far saltare in aria il Partenone”.
La pervicace pretesa inglese di trattenere i fregi di Fidia non è giustificata da alcuna ragione giuridica né tanto meno conservativa o tecnologica. La sola motivazione probante è quella espressa con crudo realismo da Lord David Strabolgi, secondo cui “se cominciassimo a restituire le opere d’arte agli altri Paesi non rimarrebbe gran che nei nostri musei”. Ecco un comportamento tanto più opinabile visto che il furto di Elgin ebbe luogo dopo 2300 anni di storia, compresi gli ultimi 300 di dominazione ottomana: un lunghissimo periodo in cui nessun conquistatore aveva mai pensato di asportare ciò che oggi appartiene al patrimonio dell’umanità.
Dopo l’apertura del Museo dell’Acropoli esiste una nuova opportunità di proporre al mondo la questione dei “marmi Elgin” che potrebbero essere collocati in detta sede permettendo agli inglesi di rinunciare al ruolo di “orgogliosi bottegai” che lo stesso Byron aveva conferito ai suoi connazionali. Senza dire che l’Unesco ha per emblema proprio il Partenone, avendolo eletto a simbolo mondiale di civiltà e di cultura.

Vedute delle cave di Carrara del pittore Saverio Salvioni

salvioni14“Rappresentando le cave di Carrara il Salvioni conferma la sua inclinazione per il paese laddove egli intende la particolare disposizione a rappresentare vedute paesaggistiche, animato da una sensibilità speciale verso la natura, rivolgendo tuttavia la sua attenzione non al lato romantico dell’immagine, quale suggestivo ricordo di viaggio, bensì alla descrizione precisa di un paesaggio che diventa in tal modo la rappresentazione di un luogo reale. (…) il Salvioni considera non esserci opera che dasse l’idea chiara di questa escavazione dei marmi, né dei monti ove questi si levano (…) Concepisce subito l’idea di raccoglierne le vedute, non solo per i viaggiatori curiosi ma anche per i naturalisti.

(Saverio Salvioni. L’uomo, l’artista, il cittadino di Gabriella Olivieri. Massa, 2009)

Le splendide vedute di Saverio Salvioni sono conservate presso l’Archivio di Stato di Massa, spendido luogo della nostra memoria collettiva.

 

I tre bacini estrattivi del carrarese e descrizione delle principali cave

Da cima Canalgrande (Foto Daniele Canali)

Da cima Canalgrande (Foto Daniele Canali)

Il Bacino Di Torano (31 cave attive), nel quale va compreso il più occidentale bacino di Pescina-Boccanaglia, produce oltre 30.000 ton/mese di marmi, sovente di qualità assai pregiate quali lo statuario, lo statuario venato, il calacata, il cremo e l’arabescato alle quote più basse, e ottimi bianchi Carrara alle quote superiori. La finissima struttura saccaroide degli statuari, con una pasta leggermente avoriata, ha reso celebri questi materiali: la loro rarità è dovuta all’essere compresi in “ovuli” sovente dal diametro di qualche decina di metri, inseriti all’interno della più vasta lente di bianchi ordinari.
Qui, poco distante la suggestiva frazione di Torano, vi erano le celebri cave di marmi statuari che dal Trecento ad oggi hanno dato materia ai sogni dei più grandi artisti. Entrando nel bacino dopo aver superato il paese di Torano di circa un chilometro, si trova, sul lato occidentale, il gruppo delle cave di Pescina, cui si accede dal precedente bivio per Pulcinacchia, mentre sul lato orientale, vi sono le rinomate cave di Crestola che serrano a ponente l’imbuto naturale che introduce al bacino di Torano.

Proseguendo la strada di fondovalle – prestando la dovuta attenzione al traffico pesante – si giunge a Grotta Colombara, un sistema di cavità naturali poco profonde, attualmente sommerse di detriti e un tempo famose come ricovero naturale dove si lavoravano manualmente, per opera perlopiù di anziani e fanciulli, mortai per macinare gli ingredienti di cucina, le famose mattonelle di marmo dette quadrelle genovesi (in virtù del fatto che per tramite di quei mercanti giungevano in Spagna e in Europa settentrionale) stipiti e tavole marmoree per i più svariati utilizzi.
Salendo ancora fino al Pianello, si incontra ad est la strada sterrata che conduce alle cave della Calocara sul fianco occidentale del monte dei Betogli che segna l’inizio dello spartiacque naturale con il bacino di Miseglia-Fantiscritti.
Nei pressi della Calocara un tempo vi era una interessante cava tardo-romana ricoltivata ed ampliata in età medievale. Usiamo il passato poiché adesso ne resta ben poca cosa, essendo spesso incivile abitudine cancellare i siti dei ritrovamenti archeologici, scoperti nel corso della rimozione di ravaneti secolari, nel timore che questi possano rallentare o fermare i lavori della cava.

Il gruppo di cave della Calocara-Betogli, da cui si estrae un buon bianco dalla pasta assai candida, presenta cave a cielo aperto sui crinali del monte e sulle sommità del medesimo, nonché cave in galleria. Tornati a ritroso verso il Pianello e appena superato il fianco del grande e moderno impianto di granulazione che lì sorge, si sale verso le suggestive e rinomate cave di Lorano.
La maggiore di queste, gestita dalla Cooperativa Cavatori Lorano, mostra nell’imponenza delle sue bancate la struttura più intima della materia: dal cosiddetto “cappellaccio” ovvero la pelle del monte che ricopre il giacimento marmifero si passa a grandi sezioni di marmi nuvolati, con una pasta assi salda grigio bluastra striata da linee più scure conosciuta fin dall’epoca romana come marmo azzurro per poi giungere al grande giacimento dei bianchi ordinari; le ripide pareti rivelano anche, scendendo per qualche decina di metri fino al piano di coltivazione, dall’alto al basso, una logica secolare di attaccare la materia.
Con questi marmi è stato rivestito il Grand Arche di Parigi, come un secolo prima erano stati rivestiti gli interni della lussuosa residenza londinese dei Fabbricotti, la Lorano’s House che ebbe il rinomato privilegio di accogliere tra le sue mura la regina Vittoria: una valida e significativa promozione pubblicitaria per i marmi di Carrara che ebbe risonanza in tutta Europa.

Dinanzi a Lorano è possibile ammirare il ravaneto e le cave del Battaglino, caratterizzati dalla spettacolare strada di arroccamento che sale ripida a zigzag lungo il ravaneto fino alla sommità del monte verso la cima della Verdichiara e le cave della Nicciola, perlopiù incolte da un trentennio.
E’ salutare e molto suggestivo il salirvi a piedi.
A fianco del Battaglino e agevolmente raggiungibili attraverso la strada di fondovalle, incontriamo le rinomate cave del Polvaccio da cui Michelangelo pare cavasse di persona i marmi per alcune delle sue opere più note.
Queste cave, fino a pochi anni fa coltivate a pozzo e in sottotecchia, sono attualmente lavorate a cielo aperto partendo dal culmine per poi abbassare via via i piani di coltivazione nell’intento di sfruttare al meglio i filoni marmiferi non intaccati dalla precedente fase di lavorazione; salendo ancora si giunge alla stazione di Ravaccione della ferrovia Marmifera (455 metri s.l.m.) da tempo abbandonata.
Da lì una lunga galleria fora le pendici del Monte Torrione per giungere a Fantiscritti, nel bacino marmifero centrale delle cave carraresi. La galleria oggi non è percorribile al pubblico, ma in tempi ragionevoli potrà, forse, essere nuovamente aperta al transito. Dalla stazione di Ravaccione, un tempo immagine simbolo delle cave carraresi e della Ferrovia Marmifera, si ascende ancora verso le cave dette dell’Amministrazione appartenute un tempo alla famiglia Del Medico e celebri per aver dato i marmi che arricchiscono il Palazzo Reale di Madrid.

Da qui, verso ovest si apre il suggestivo scenario di Canalbianco e ad est quello del Torrione. Interessante fra le cave attive del Torrione è una splendida cava in sottotecchia, attualmente non lavorata poco più in alto della quale si incontra il passo dei Fantiscritti che, dopo qualche decina di metri percorribili a piedi, immette nell’omonimo versante. Si consiglia vivamente di assistere ad un tramonto dalle cave del Torrione, per godere di uno spettacolo realmente poetico e suggestivo sull’intera vallata. All’altezza delle cave del Torrione inizia un’erta rampa sterrata che conduce alle cave di Ravalunga e, dopo un breve strappo, prosegue per giungere al Piazzale dell’Uccelliera.
Il bacino di Torano è tra i tre bacini marmiferi carraresi quello più “lunare” data la forte frantumazione di numerose sezioni della montagna, in parte a causa del termine naturale della lente marmifera che va a sovrapporsi a scisti e calcari delle formazioni orografiche vicine, in parte come risultato dello spietato uso di mine invalso nel passato. Comunque queste masse di detriti sono una importante industria creata dall’indotto marmifero. Ogni anno, infatti, vengono esportati da Carrara più di 2 milioni di tonnellate di granulati di carbonato di calcio puro, siano essi di diametro minimo o micronizzati destinati all’industria di trasformazione e utilizzati nella produzione di carta, gomma, chimica, farmaceutica, inerti per l’edilizia ecc.

Il Bacino di Fantiscritti (30 cave attive e oltre 30.000 ton/mese di marmi prodotti) è il cuore dei giacimenti marmiferi carraresi: si svela improvviso non appena vengono superate le pendici del Monte Croce, poco sopra la frazione di Miseglia. La visione suggestiva dei Ponti di Vara è un classico stereotipo visivo delle cave carraresi: una veduta d’insieme di notevole effetto, sia durante l’assolato mezzogiorno che nella magica atmosfera della notte, quando la luna rende profonde le ombre e soffuso il chiarore delle rocce. Qui si incontrano i due storici ponti ottocenteschi della Ferrovia Marmifera (1890) con il ponte della rotabile, ultimato negli anni ’30.
Fantiscritti è la zona del marmo bianco ordinario, dei venati dalla pasta cristallina bianca e bianco-cenere finemente venata di grigio, dei nuvolati di eccellente solidità, del cremo dal vago color avorio scuro con esili fili verdi e del raro zebrino, dalle forti striature grigio fumo e verdi, ottenuto dal differente verso di taglio dato a particolari saldezze di cremo.
Già ai margini del ponte principale, le cui cinque arcate sono sempre più ingiustificatamente sommerse dai detriti, si trovano, nelle cave di Vara bassa e Vara alta interessanti cave a cielo aperto e a pozzo che propongono alla vista queste varietà di marmi. Ad ovest il tracciato della ex-ferrovia – adibito fin dagli anni sessanta al traffico dei camion – supera la lunga galleria di Montecroce permettendo la discesa verso la città mentre ad est si dirige verso Colonnata con gallerie e viadotti che arrivano al Tarnone, dove devia nuovamente ad ovest, sempre in galleria, per sbucare poi nel piazzale di Fantiscritti e quindi, ancora in galleria bucando le falde del Monte Torrione, in direzione di Ravaccione, meta ultima del percorso. Tutte le cave poste in quota superiore rispetto le stazioni di caricamento della ferrovia dovevano fare “lizzare” i marmi dal piano di cava al poggio di caricamento: la lizzatura, ovvero la antica tecnica di fare scivolare per mezzo di funi calate a mano con brevi strappi, grossi blocchi di marmo posti su di una slitta lignea che scorreva su traverse saponate, viene rievocata ogni anno ai primi di agosto presso i ponti di Vara.
Risalendo oltre i Ponti, lungo la rotabile asfaltata, dopo un paio di tornanti si giunge al Poggio di Fantiscritti, dove un moderno piazzale attrezzato permette, durante l’estate, la realizzazione di concerti e spettacoli sovente trasmessi in televisione. Sul lato ovest del piazzale, entrando nella ex galleria ferroviaria e percorrendola per circa duecento metri, si giunge all’interno della spettacolare cava sotterranea della Galleria Ravaccione: una immensa cattedrale scavata nel cuore del monte a partire dal vecchio tracciato ferroviario che, un tempo imponente opera di ingegneria ferroviaria, oggi scompare letteralmente inghiottita dalla vastità degli spazi tagliati con i moderni macchinari.

Impressiona vedere il foro della galleria ritagliato all’interno di un enorme cubo distaccato dal resto della roccia, quasi perduto tra i giganteschi pilastri di marmo lasciati a sorreggere la montagna: tre enormi sale compongono la cava, due attivamente lavorate, illuminate da grandi fari piantati nel corpo della montagna, in una imponenza che rende minuscoli i moderni mezzi meccanici usati per movimentare i blocchi appena staccati dal monte. Tornati a riveder le stelle, per parafrasare il sommo Dante, o piuttosto tornati nella luce accecante del giorno, si noterà sopra l’entrata della galleria la cava detta gli Scaloni, che si sviluppa alla sommità di una lunga teoria di muraglioni di pietra a secco, i cosiddetti “bastioni” caratteristici delle nostre cave fino ad una ventina di anni fa. Qui è possibile osservare tutt’oggi un interessante piano inclinato per la lizzatura dei marmi ed altre caratteristiche di grande interesse archeologico-industriale che richiedono una opportuna tutela giuridica e culturale.
Dal Poggio si sale ancora lasciando ai lati interessanti cave dai derrick abbarbicati alle pareti, una cava a pozzo raggiungibile solo in ascensore (lo stesso che fa salire in superficie i blocchi di marmo) e una vasta muraglia micenea formata da grandi blocchi squadrati posta a reggere un grande ravaneto, soggetto prediletto, negli ultimi tempi, di spot pubblicitari di alcune case automobilistiche. Infine si giunge dinanzi alla monumentale cava dello Strinato, presso la Bocca di Canalgrande. Lì la strada si dirama, dirigendosi ad ovest verso la Fiordichiara e i Fantiscritti, ad est verso Canalgrande e la Carbonera.

Le cave della Fiordichiara sono un ottimo esempio di cave di galleria, logica prosecuzione delle cave sottotecchia scavate, decenni or sono, in questo versante del monte Torrione. Colpisce l’assenza di un vasto piazzale e la struttura ad enormi finestroni sovrapposti tipica di quella cava, con le aperture superiori che si addentrano sempre più nella montagna. Grandi derrick movimentano i blocchi dall’interno della cava allo spazio sottostante, e nel modo medesimo agiscono i macchinari e le pale gommate utili alle lavorazioni in galleria. La strada procede ancora per un centinaio di metri tra la soffice polvere di marmo, regina di questi luoghi, per aprirsi infine sullo scenario delle cave dei Fantiscritti, chiamati così perché nell’erta parete di uno sperone furono scolpiti, in età romana, piccole figure a bassorilievo raffiguranti Ercole in compagnia di Geta e Caracalla figli dell’imperatore Settimio Severo o, secondo un’altra ipotesi, Ercole con Giove e Bacco. L’edicola marmorea fu staccata dal monte nel 1864 per essere conservata presso l’Accademia di Belle Arti (vedi a pag.) dove ancor oggi può essere ammirata; altre iscrizioni facenti parte dell’edicola e listate da celebri firme di illustri visitatori, quali il Giambologna ed il Canova sono attualmente depositate presso il Museo Civico del Marmo (vedi a pag.).
Tornati a ritroso al bivio della Bocca di Canalgrande e percorsi duecento metri verso est si incontra la suggestiva cava di Canalgrande, condotta dalla Cooperativa Cavatori Canalgrande.
Vi si estraggono bianchi, venati e nuvolati capaci di grandi saldezze; materiali notoriamente solidi ed assai ricercati. La cava si sviluppa sia lungo la parete del monte che a pozzo, con qualche tentativo di sottotecchia ormai in disuso, in una movimentata sequela di sfaccettature e piani di coltivazione, davvero suggestiva nella luce radente del pomeriggio. Più sopra è la cava di Carbonera, somigliante ad una gigantesca scala formata da parallelepipedi che presto si confondono con le aspre pieghe del culmine della montagna. Da qui si gode uno splendido panorama sulla città e sul mare che si perde in azzurro color di lontananza. In questa cava, nel 1929, fu estratto l’enorme monolite di 300 tonnellate, lungo 18 metri e largo 2,35 metri destinato alla realizzazione di un obelisco da porre in Roma. Infine, sulla Cima di Canalgrande, si può notare una interessante cava in ampia galleria e, in sommo, una cava sormontata da un taglio a struscio, da cui si gode un paesaggio impagabile sulle Apuane.

Il Bacino di Colonnata (29 cave attive, 40.000 ton./mese prodotte) è il più orientale dei tre bacini carraresi: risalendo la strada comunale per Colonnata dal Ponte di Ferro, tra i più antichi ponti della FMC inaugurato nel lontano 1875, si incontrano numerose segherie eredi dei primitivi impianti sei-settecenteschi per il taglio delle lastre anticamente azionati dalla forza motrice delle acque. Il bacino conta una trentina di cave attive tra le quali le cave del complesso di Gioia, le più grandi di tutto il comprensorio carrarese. Vi si estrae il bianco ordinario dalle grandi saldezze, ma principalmente bianchi venati, bianchi arabescati, il Bianco Brouillé, il Bardiglio nelle sue tonalità più azzurrognole (bardiglio nuvolato, bardiglietto e il raro Bardiglio Cappella).
In prossimità della località detta Canaglie è possibile scorgere, in sommità dello stretto vallone, la suggestiva cava dell’Artana che appare come un castello fantastico cinto da muraglie marmoree dalle grandi striature oblique che corrono sulla superficie bianca del marmo come distratte pennellate di un pittore impressionista. Passata Mortarola, sbocco antico delle vecchie vie dei carri si giunge a Bedizzano (vedi a p.) da dove si prosegue per Colonnata. Attraversato per circa un chilometro un fitto bosco di castagni si giunge alla cava della Piana, magnifico esempio di cava a pozzo, profonda alcune decine di metri e sviluppata in sotterraneo da cui si traggono eccellenti bianchi venati e bardigli.

I blocchi giungono in superficie per mezzo di ascensori; la direzione della cava ha posto, sull’orlo di ingresso al pozzo, un significativo verso dantesco che ben rende l’atmosfera di quei luoghi ed alcune passerelle da cui è possibile ammirare l’interno della cava. Poco dopo, salendo ancora, si incontra l’accesso pedonabile alla suggestiva cava dell’Artana, citata in precedenza mentre più oltre si giunge al Calagio, da cui è possibile raggiungere, sempre a piedi, le cave romane di Fossacava dove sono tuttora ben visibili le tagliate romane che occupano un anfiteatro naturale con un fronte di circa 200 metri articolato nei vari sistemi antichi di taglio: formelle, trincee, fori utilizzati per l’introduzione di cunei di legno che, bagnati per più giorni, si ingrossavano permettendo il distacco dei blocchi lungo le naturali linee di fratturazione. Fossacava, da cui veniva estratto il marmo “azzurro variegato” ricordato anche da Strabone (l’attuale Bardiglio Nuvolato) è il sito in cui sono stati effettuati i maggiori ritrovamenti di materiali archeologici: epigrafi incise sulle pareti, altari votivi nonché diversi utensili come martelli picconi e cunei metallici, monete, pezzi semilavorati e una graziosa statuetta di Artemide, conservata, insieme a molti altri reperti, presso il Museo Civico del Marmo.

Poco più a nord è possibile visitare un’altra interessante cava romana sviluppata a gradoni, con lunghe trincee scavate allo scopo di attaccare la roccia che ancora appare nelle primitive forme, appena sbozzate, dei manufatti che vi si dovevano ricavare: fusti di colonne, capitelli, basi ecc. Tornati al Calagio e lasciata sul fianco occidentale la cava dei Lochi si prosegue ancora per circa trecento metri per poi voltare verso il grande complesso estrattivo di Gioia. In sommità de monte, superate alcune cave recentemente riattivate nella zona di Cancelli di Gioia, si giunge nel grande anfiteatro di Gioia- Piastrone, della cava, cioè, lavorata in modo eccellente dalla Cooperativa Cavatori di Gioia, distribuita lungo enormi gradoni discendenti sovrastati da una imponente parete marmorea ad anfiteatro; a sud-ovest discende un’altra cortina marmorea, parte di una altra cava condotta da una ditta privata che ha sezionato il monte per decine di metri lasciando così intravedere un ammirevole spaccato geologico dell’intima struttura del marmo: una grande fascia di bardiglio che scorre obliqua verso il basso, poi la grande lente di bianco venato nelle sue articolazioni più minute. Subito dietro lo sperone, in uno stridente contrasto tra natura selvaggia e natura piegata dall’opera umana, incontriamo un’altra grande cava con tagli obliqui a struscio e bancate che giungono in sommità della cresta.
Da qui è possibile risalire ancora più in alto, ovviamente a piedi, lungo la strada sterrata che si arrampica verso il culmine del monte, per godere di una irripetibile veduta d’insieme delle cave di Gioia, alle quali fa da sfondo lo snodarsi a semicerchio del versante massese delle Apuane. Impegnandosi in una agevole passeggiata di un quarto d’ora si potrà dominare il vasto paesaggio che si apre sugli alti gioghi delle Apuane e in particolare sulla Tambura dove è possibile intravedere il lento e tortuoso incedere della settecentesca via Vandelli, i piccoli paesi abbarbicati alle pendici della valle del Frigido e, nel versante carrarese, una spettacolare quanto insolita vista di Colonnata e del Monte Maggiore.
Tornati sulla strada di fondovalle si prosegue verso Colonnata da dove, superato il bivio per il paese si incontra la tortuosa strada per le cave dei Campanili: la zona prendeva il nome da due alti speroni di roccia residui delle lavorazioni subite dall’antica cresta di spartiacque e di recente abbattuti per motivi di sicurezza, visto il loro instabile incombere sui piazzali delle cave sottostanti. Infine si scende verso l’interessante gruppo delle cave dei Canaloni, cinte a nord dalla natura aspra delle dorsali apuane. Torreggia su queste cave uno sperone marmoreo sfaccettato in numerose superfici mentre lunghe pareti di marmo dalle mirabili saldezze corrono verso nord. Siamo ormai alla fine del bacino marmifero di Colonnata chiuso al culmine dalle cave dei Vallini.

Tratto da Carta Tematica delle Cave di Carrara

Produzioni e caratteristiche economiche del comprensorio lapideo carrarese

Foto Daniele Canali

Foto Daniele Canali

Lo sfruttamento delle cave di marmo risale ai tempi di Roma imperiale. Questa ininterrotta industria bimillenaria rese e rende famosa nel mondo Carrara.
Ai nostri giorni, dai bacini marmiferi carraresi si estraggono circa 500.000 tonnellate di marmi tra blocchi riquadrati (35%) e blocchi informi (65%) all’anno.

L’economia del territorio è quindi profondamente legata al settore marmifero e lapideo in genere, a partire dalle fasi della estrazione in cava, alle svariate fasi di lavorazione e trasformazione in manufatti per l’edilizia e l’architettura, per l’arredo urbano, il restauro, l’arte, ecc.: escavazione, trasformazione e commercializzazione che vanno ben oltre i marmi bianchi; infatti altri blocchi e lavorati di marmi e graniti giungono a Carrara da ogni parte della terra per essere lavorati e commercializzati. Attorno a questa industria ruotano anche altri importanti momenti dell’ economia locale, quali il settore metalmeccanico, con la produzione di macchinari altamente innovativi per l’escavazione e la lavorazione di marmi e graniti, gran parte delle attività portuali e un vasto indotto composto da centinaia di piccole e medie aziende capaci di una vasta gamma di produzioni e servizi.

LE CAVE: PRINCIPALI TIPOLOGIE DI COLTIVAZIONE, NORMATIVE GIURIDICHE E TECNICHE DI LAVORAZIONE

Il comprensorio estrattivo di Carrara conta ad oggi novanta cave attive situate nei tre grandi bacini estrattivi che dalle spalle della città si diramano verso le pendici del Monte Maggiore.
Due opposte percezioni visive sono possibili per comprendere il magnifico scenario che questa bimillenaria industria umana ha creato: la prima, dal basso, racchiude l’orizzonte compiuto del versante meridionale delle Apuane e si può cogliere nella sua interezza dalle spiagge della marina carrarese; l’altra dall’alto del piazzale dell’Uccelliera, ai piedi del monte Sagro, al termine di una comoda strada rotabile che risale ad arco per circa venti chilometri dal centro città fino ai 1100 metri di quota, con ampi scorci paesaggistici di suggestiva bellezza. Qui, sovrastando le cave del bacino di Torano e intravedendo parte di quelle del bacino di Miseglia, lo sguardo si perde su buona parte della costa toscana e del Levante ligure, fino ad incontrare le isole dell’arcipelago e le montagne della Corsica.

Ma solo la visita diretta delle singole cave, permette di cogliere l’imponenza suggestiva e la particolarità di questi luoghi.
Troveremo così “cave a cielo aperto” che attaccano il monte su di un culmine o su di un costone e “cave a pozzo”, capaci di dare vita ad imponenti anfiteatri cinti da cortine marmoree oppure “cave sotto tecchia” e “cave in galleria”, vere e proprie cattedrali immense scavate nel cuore della montagna: tutte queste caratteristiche possono tranquillamente sommarsi in una sola cava proprio in relazione allo sviluppo delle differenti fasi tecniche della coltivazione che, normalmente, segue il filone marmifero maggiormente capace di qualità e saldezze dimensionali.

Le moderne tecniche di lavorazione di cava, introdotte da oltre un ventennio, basate principalmente sull’utilizzo di filo diamantato o catene diamantate azionate da potenti macchinari capaci di lavorare sia in piano che secondo angoli prestabiliti, hanno completamente rivoluzionato il lavoro di cava e anche la struttura del paesaggio marmifero.
Si stima infatti che nell’ultimo trentennio si sia cavato più marmo che nei duemila anni trascorsi in precedenza.
Ai solitari silenzi della montagna rotti dalle rauche voci dei cavatori, dei lizzatori, dal ritmato battere dei mazzuoli intenti a riquadrare i blocchi o scavare trincee per il filo elicoidale, dal fischio prolungato delle locomotive della ferrovia marmifera che trainavano lunghi convogli carichi di marmi dalle montagne alle segherie del piano e ai pontili caricatori delle spiagge, si sono sovrapposti gli interminabili rumori delle gigantesche pale meccaniche utilizzate per movimentare i blocchi scavati, il ronzante andirivieni di centinaia di camion capaci di trasportare carichi di trenta tonnellate lungo le erte strade scheggiose, il sibilo serpentino del filo diamantato che seziona il marmo, preciso ed incessante, quasi fosse burro.

Tramontata una millenaria cultura del lavoro alle cave, insieme a questa sono scomparsi anche gli epigoni di generazioni di maestri del marmo, uomini assorti nel duro lavoro quotidiano capaci di strappare alla montagna la sua materia migliore. Una sapienza tecnica tramandata di generazione in generazione, imparata in cava fin da fanciulli ed applicata, con mezzi poveri, a quella antica sfida, punteggiata di sangue e dolore. Dapprima il filo elicoidale azionato da motori elettrici -innovazione applicata alle lavorazioni di cava già sul finire del secolo trascorso- si era sostituito al deleterio sistema degli esplosivi, “regalando” alla montagna regolarità geometriche prima sconosciute; quindi la ferrovia, le teleferiche, i piani inclinati meccanici e infine le conquiste e gli sviluppi tecnologici dell’ultimo trentennio hanno rivoluzionato, in un periodo storico tutto sommato breve, forma e struttura delle cave, quantità prodotte e modalità di lavoro.
Il lavoro alle cave è mutato assieme al mutare dei tempi e all’avanzare della tecnica: lavoro che rimane pericoloso e difficile, e ancor oggi troppi ed ingiustificati incidenti, spesso mortali, tingono del sangue dei lavoratori il nostro marmo.

Circa il novanta per cento delle cave e la quasi totalità di quelle attive sono parte del patrimonio indisponibile del Comune, ovvero sono di proprietà del Comune di Carrara che ne concede la coltivazione a società di privati o cooperative di cavatori. La concessione si può trasmettere a terzi, vendere o comprare in relazione al lavoro condotto nella cava: per la concessione si deve pagare un canone di affitto annuo al Comune, e dimostrare che la cava viene attivamente lavorata e che siano rispettate le normative sulle modalità di coltivazione, sulla sicurezza del lavoro e il rispetto di particolari criteri di impatto ambientale. Nel caso contrario la concessione viene caducata e si assegna a nuovi concessionari. Regole di carattere giuridico e normativo precise e non contestabili, grazie soprattutto alla definitiva approvazione, nel 1995, del nuovo Regolamento per la concessione degli Agri marmiferi Comunali di Carrara, che pone fine a decenni di contrasti, contenziosi, ed interpretazioni arbitrarie delle due leggi estensi del 1751 e del 1846.

Le cave di Carrara sono un intricatissimo mosaico di storia e di attualità legato principalmente al buon esito dello sfruttamento di un determinato filone marmifero, che nel corso dei decenni, a volte dei secoli, può essere ripreso o nuovamente intermesso. Trattandosi di materiale naturale ci si scontra quotidianamente con complesse problematiche legate ai più svariati fattori: il grado di frantumazione o al contrario la saldezza del materiale, intuita dal “verso” del marmo – cioè dall’andamento del filone principale – la difficoltà o la facilità nel trarre grandi produzioni omogenee per colore e disegno, l’andamento delle richieste del mercato che fanno la fortuna o la sfortuna di un determinato materiale, fattore solitamente indipendente dalla cava ma legato al gusto e alle mode dettate dagli architetti e del pubblico dei consumatori di prodotto finito. Per queste e per molte altre ragioni una cava può sommare le differenti tipologie elencate più sopra, intraprendere repentinamente direzioni diverse rispetto a quelle stabilite all’inizio della coltivazione, cessare perché considerata esaurita o riprendere in conseguenza della introduzione di nuove tecnologie di escavazione o di una inaspettata richiesta commerciale di una particolare qualità di materiale. Per questa ragione quasi tutte le cave tendono alla produzione dei bianchi, siano essi ordinari o venati, trascurando qualità più difficili da commercializzare, sebbene tecnicamente altrettanto valide.
Stabilito un piano di coltivazione, si procede alla messa in sicurezza della cava rimuovendo dalla tecchia i massi pericolanti o che comunque possano pregiudicare le lavorazioni sottostanti. Preparato quindi con l’ausilio di detriti un piazzale atto alla movimentazione dei macchinari di cava si eseguono dei fori orizzontali e verticali con la macchinetta perforante oleodinamica o con particolari martelli pneumatici; in questi fori viene infilato del filo d’acciaio gommato sopra il quale sono inserite le “perline” diamantate e i distanziatori, quindi collegato ad una potente macchina tagliatrice che scorrendo su di un binario è capace di tendere automaticamente il filo durante le fasi di taglio o ruotarne l’asse a seconda delle varie esigenze. Nel caso di lavorazioni in galleria si utilizza la tagliatrice a catena diamantata, dotata di un braccio che consente un taglio utile di tre metri in verticale o in orizzontale e deriva da modelli in uso nelle miniere di carbone.

La combinazione di questi due mezzi di taglio consente il distacco delle bancate di marmo di medie dimensioni in una o due giornate lavorative. Separato il blocco dal monte si procede al suo completo distacco, introducendo tra la parete e il blocco speciali cuscini metallici gonfiabili con acqua o martinetti oleodinamici che ne facilitano il definitivo distacco. Il resto dell’operazione è eseguito dalla pala gommata dotata di escavatore, così come la movimentazione successiva alla riquadratura del blocco sul piazzale e il caricamento sui camion. Nel caso dell’abbattimento di un intera bancata si procede come descritto sopra, con la sola evidente eccezione di preparare un letto di detriti sufficiente ad attutire il colpo successivo al ribaltamento della stessa sul piazzale.

Tratto da Carta Tematica delle Cave di Carrara