Produzioni e caratteristiche economiche del comprensorio lapideo carrarese

Foto Daniele Canali

Foto Daniele Canali

Lo sfruttamento delle cave di marmo risale ai tempi di Roma imperiale. Questa ininterrotta industria bimillenaria rese e rende famosa nel mondo Carrara.
Ai nostri giorni, dai bacini marmiferi carraresi si estraggono circa 500.000 tonnellate di marmi tra blocchi riquadrati (35%) e blocchi informi (65%) all’anno.

L’economia del territorio è quindi profondamente legata al settore marmifero e lapideo in genere, a partire dalle fasi della estrazione in cava, alle svariate fasi di lavorazione e trasformazione in manufatti per l’edilizia e l’architettura, per l’arredo urbano, il restauro, l’arte, ecc.: escavazione, trasformazione e commercializzazione che vanno ben oltre i marmi bianchi; infatti altri blocchi e lavorati di marmi e graniti giungono a Carrara da ogni parte della terra per essere lavorati e commercializzati. Attorno a questa industria ruotano anche altri importanti momenti dell’ economia locale, quali il settore metalmeccanico, con la produzione di macchinari altamente innovativi per l’escavazione e la lavorazione di marmi e graniti, gran parte delle attività portuali e un vasto indotto composto da centinaia di piccole e medie aziende capaci di una vasta gamma di produzioni e servizi.

LE CAVE: PRINCIPALI TIPOLOGIE DI COLTIVAZIONE, NORMATIVE GIURIDICHE E TECNICHE DI LAVORAZIONE

Il comprensorio estrattivo di Carrara conta ad oggi novanta cave attive situate nei tre grandi bacini estrattivi che dalle spalle della città si diramano verso le pendici del Monte Maggiore.
Due opposte percezioni visive sono possibili per comprendere il magnifico scenario che questa bimillenaria industria umana ha creato: la prima, dal basso, racchiude l’orizzonte compiuto del versante meridionale delle Apuane e si può cogliere nella sua interezza dalle spiagge della marina carrarese; l’altra dall’alto del piazzale dell’Uccelliera, ai piedi del monte Sagro, al termine di una comoda strada rotabile che risale ad arco per circa venti chilometri dal centro città fino ai 1100 metri di quota, con ampi scorci paesaggistici di suggestiva bellezza. Qui, sovrastando le cave del bacino di Torano e intravedendo parte di quelle del bacino di Miseglia, lo sguardo si perde su buona parte della costa toscana e del Levante ligure, fino ad incontrare le isole dell’arcipelago e le montagne della Corsica.

Ma solo la visita diretta delle singole cave, permette di cogliere l’imponenza suggestiva e la particolarità di questi luoghi.
Troveremo così “cave a cielo aperto” che attaccano il monte su di un culmine o su di un costone e “cave a pozzo”, capaci di dare vita ad imponenti anfiteatri cinti da cortine marmoree oppure “cave sotto tecchia” e “cave in galleria”, vere e proprie cattedrali immense scavate nel cuore della montagna: tutte queste caratteristiche possono tranquillamente sommarsi in una sola cava proprio in relazione allo sviluppo delle differenti fasi tecniche della coltivazione che, normalmente, segue il filone marmifero maggiormente capace di qualità e saldezze dimensionali.

Le moderne tecniche di lavorazione di cava, introdotte da oltre un ventennio, basate principalmente sull’utilizzo di filo diamantato o catene diamantate azionate da potenti macchinari capaci di lavorare sia in piano che secondo angoli prestabiliti, hanno completamente rivoluzionato il lavoro di cava e anche la struttura del paesaggio marmifero.
Si stima infatti che nell’ultimo trentennio si sia cavato più marmo che nei duemila anni trascorsi in precedenza.
Ai solitari silenzi della montagna rotti dalle rauche voci dei cavatori, dei lizzatori, dal ritmato battere dei mazzuoli intenti a riquadrare i blocchi o scavare trincee per il filo elicoidale, dal fischio prolungato delle locomotive della ferrovia marmifera che trainavano lunghi convogli carichi di marmi dalle montagne alle segherie del piano e ai pontili caricatori delle spiagge, si sono sovrapposti gli interminabili rumori delle gigantesche pale meccaniche utilizzate per movimentare i blocchi scavati, il ronzante andirivieni di centinaia di camion capaci di trasportare carichi di trenta tonnellate lungo le erte strade scheggiose, il sibilo serpentino del filo diamantato che seziona il marmo, preciso ed incessante, quasi fosse burro.

Tramontata una millenaria cultura del lavoro alle cave, insieme a questa sono scomparsi anche gli epigoni di generazioni di maestri del marmo, uomini assorti nel duro lavoro quotidiano capaci di strappare alla montagna la sua materia migliore. Una sapienza tecnica tramandata di generazione in generazione, imparata in cava fin da fanciulli ed applicata, con mezzi poveri, a quella antica sfida, punteggiata di sangue e dolore. Dapprima il filo elicoidale azionato da motori elettrici -innovazione applicata alle lavorazioni di cava già sul finire del secolo trascorso- si era sostituito al deleterio sistema degli esplosivi, “regalando” alla montagna regolarità geometriche prima sconosciute; quindi la ferrovia, le teleferiche, i piani inclinati meccanici e infine le conquiste e gli sviluppi tecnologici dell’ultimo trentennio hanno rivoluzionato, in un periodo storico tutto sommato breve, forma e struttura delle cave, quantità prodotte e modalità di lavoro.
Il lavoro alle cave è mutato assieme al mutare dei tempi e all’avanzare della tecnica: lavoro che rimane pericoloso e difficile, e ancor oggi troppi ed ingiustificati incidenti, spesso mortali, tingono del sangue dei lavoratori il nostro marmo.

Circa il novanta per cento delle cave e la quasi totalità di quelle attive sono parte del patrimonio indisponibile del Comune, ovvero sono di proprietà del Comune di Carrara che ne concede la coltivazione a società di privati o cooperative di cavatori. La concessione si può trasmettere a terzi, vendere o comprare in relazione al lavoro condotto nella cava: per la concessione si deve pagare un canone di affitto annuo al Comune, e dimostrare che la cava viene attivamente lavorata e che siano rispettate le normative sulle modalità di coltivazione, sulla sicurezza del lavoro e il rispetto di particolari criteri di impatto ambientale. Nel caso contrario la concessione viene caducata e si assegna a nuovi concessionari. Regole di carattere giuridico e normativo precise e non contestabili, grazie soprattutto alla definitiva approvazione, nel 1995, del nuovo Regolamento per la concessione degli Agri marmiferi Comunali di Carrara, che pone fine a decenni di contrasti, contenziosi, ed interpretazioni arbitrarie delle due leggi estensi del 1751 e del 1846.

Le cave di Carrara sono un intricatissimo mosaico di storia e di attualità legato principalmente al buon esito dello sfruttamento di un determinato filone marmifero, che nel corso dei decenni, a volte dei secoli, può essere ripreso o nuovamente intermesso. Trattandosi di materiale naturale ci si scontra quotidianamente con complesse problematiche legate ai più svariati fattori: il grado di frantumazione o al contrario la saldezza del materiale, intuita dal “verso” del marmo – cioè dall’andamento del filone principale – la difficoltà o la facilità nel trarre grandi produzioni omogenee per colore e disegno, l’andamento delle richieste del mercato che fanno la fortuna o la sfortuna di un determinato materiale, fattore solitamente indipendente dalla cava ma legato al gusto e alle mode dettate dagli architetti e del pubblico dei consumatori di prodotto finito. Per queste e per molte altre ragioni una cava può sommare le differenti tipologie elencate più sopra, intraprendere repentinamente direzioni diverse rispetto a quelle stabilite all’inizio della coltivazione, cessare perché considerata esaurita o riprendere in conseguenza della introduzione di nuove tecnologie di escavazione o di una inaspettata richiesta commerciale di una particolare qualità di materiale. Per questa ragione quasi tutte le cave tendono alla produzione dei bianchi, siano essi ordinari o venati, trascurando qualità più difficili da commercializzare, sebbene tecnicamente altrettanto valide.
Stabilito un piano di coltivazione, si procede alla messa in sicurezza della cava rimuovendo dalla tecchia i massi pericolanti o che comunque possano pregiudicare le lavorazioni sottostanti. Preparato quindi con l’ausilio di detriti un piazzale atto alla movimentazione dei macchinari di cava si eseguono dei fori orizzontali e verticali con la macchinetta perforante oleodinamica o con particolari martelli pneumatici; in questi fori viene infilato del filo d’acciaio gommato sopra il quale sono inserite le “perline” diamantate e i distanziatori, quindi collegato ad una potente macchina tagliatrice che scorrendo su di un binario è capace di tendere automaticamente il filo durante le fasi di taglio o ruotarne l’asse a seconda delle varie esigenze. Nel caso di lavorazioni in galleria si utilizza la tagliatrice a catena diamantata, dotata di un braccio che consente un taglio utile di tre metri in verticale o in orizzontale e deriva da modelli in uso nelle miniere di carbone.

La combinazione di questi due mezzi di taglio consente il distacco delle bancate di marmo di medie dimensioni in una o due giornate lavorative. Separato il blocco dal monte si procede al suo completo distacco, introducendo tra la parete e il blocco speciali cuscini metallici gonfiabili con acqua o martinetti oleodinamici che ne facilitano il definitivo distacco. Il resto dell’operazione è eseguito dalla pala gommata dotata di escavatore, così come la movimentazione successiva alla riquadratura del blocco sul piazzale e il caricamento sui camion. Nel caso dell’abbattimento di un intera bancata si procede come descritto sopra, con la sola evidente eccezione di preparare un letto di detriti sufficiente ad attutire il colpo successivo al ribaltamento della stessa sul piazzale.

Tratto da Carta Tematica delle Cave di Carrara