Marmo apuano: cento anni dopo

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

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La sola industria marmifera per cui sono disponibili dati omogenei di lungo periodo relativi a produzione e vendite, è quella apuana. In merito, è interessante rilevare che un secolo fa, e precisamente nel 1910 (alla vigilia della guerra di Libia e di quella mondiale – da cui il comparto lapideo sarebbe stato fortemente condizionato in senso negativo) le cave del distretto produssero 362 mila tonnellate di marmo, mentre le spedizioni pervennero a 345 mila e l’export a 286 mila. Ne consegue che l’incidenza delle vendite sul volume estratto fu pari al 95 per cento, mentre quella dell’export sul totale delle partenze superò agevolmente i quattro quinti.
Blocchi e semilavorati costituivano la maggioranza del traffico in uscita ma non si deve credere, alla luce di questi numeri, che lo scarto di lavorazione tendesse a zero. In realtà, il materiale di risulta abbondava anche allora, ma bisogna aggiungere che una parte delle spedizioni proveniva dagli stoccaggi del quadriennio precedente (il massimo di 387 mila tonnellate era stato ascritto nel 1907) e per il poco che potevano contare all’epoca, da materiali di altra provenienza. Quanto alla distribuzione, le cifre pongono in luce il forte sottodimensionamento del mercato interno rispetto a quelli esteri.
Oggi, la produzione del comprensorio ammonta al quadruplo di quella che si era registrata un secolo prima: visti i progressi altrui, non è un risultato che consenta di alzare il gran pavese. Caso mai si deve sottolineare il forte incremento della produttività, perché all’epoca lavoravano nelle cave circa 12 mila addetti, fra cui alcune centinaia di ragazzi al di sotto dei 15 anni: il rapporto era di 35 tonnellate/uomo per anno, contro un livello attuale cresciuto di almeno 50 volte.
E’ inutile stracciarsi le vesti per dire che il progresso tecnico ha abbattuto i livelli occupativi di cava nella misura di oltre nove decimi, incentivando l’impiego di manodopera nelle fasi a valle, che oggi supera i quattro quinti degli effettivi; in compenso, sono notevolmente migliorate le condizioni di lavoro. Non si dimentichi che proprio un secolo fa si dovette piangere la terribile sciagura dei Bettogli, rimasta nella memoria storica di Carrara e della sua industria marmifera come una delle più tragiche in assoluto (ma l’olocausto continua anche nel nuovo millennio: cosa inaccettabile alla luce dell’avanzamento esponenziale delle tecnologie).
Si diceva del mercato interno, che ancora oggi è meno importante dell’export, sebbene l’impulso alla democratizzazione dei consumi ed il contenimento dei prezzi dovuto alle enormi migliorie abbiano accresciuto notevolmente la sua importanza e quella di un’adeguata promozione anche in Italia.
A tale proposito si impongono alcune considerazioni che possono sembrare banali ma che non esimono dal meditare con un minimo di attenzione sulle sorti e sulle prospettive del settore, quanto meno nella zona apuana. L’incremento della produzione dal 1910 ad oggi è stato di quasi tre punti in ragione annua, mentre altrove si sono bruciate le tappe in tempi molto più brevi. Ciò, senza dire che un secolo fa si riusciva ad estrarre e vendere un volume inferiore di sole quattro volte a quello attuale in condizioni operative molto più difficili, sia dal punto di vista delle infrastrutture che da quello dei trasporti; e senza poter contare sugli strumenti promozionali oggi disponibili, per cominciare dalle fiere e finire ad internet. E’ tutto regolare, oppure c’è qualcosa che non va?
Quello apuano non può essere assunto quale modello di un’espansione mondiale che si è giovata di straordinari fattori propulsivi, sia nell’ambito del mercato che in quello della tecnica. Tuttavia, almeno nell’ottica italiana ne emerge una condizione di vischiosità che caratterizza anche il lungo periodo e che è bene aver presente quale fattore di una crescita oggettivamente limitata, se si vuole evitare la perdita di ulteriori punti sui mercati internazionali, ed alla fine, anche su quello interno.