Marmo bianco: una congiuntura complessa

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Le ultime notizie apuane sul regresso del marmo bianco nel primo semestre del 2016 hanno suscitato preoccupazioni diffuse negli ambienti del settore, come è logico che sia, anche se i dati di breve periodo hanno sempre bisogno di verifiche più esaurienti. Poi, bisogna aggiungere che le cifre più critiche, se non altro per la loro consistenza quantitativa, sono quelle dell’export grezzo, cosa non certo sorprendente vista la flessione dell’interscambio mondiale di blocchi, già ascritta nel 2015, soprattutto da parte asiatica.
Vale la pena di sottolineare che il bianco non è certo un’esclusiva apuana, come ha dimostrato, se per caso ve ne fosse stato bisogno, l’ultima fiera di Verona, grazie alla rinnovata presenza dei corrispondenti materiali italiani, come quelli di Covelano e di Lasa, per non dire della sempre più forte partecipazione estera: basti citare, per limitarci alle più significative di fonte europea, le offerte di bianchi provenienti da Grecia, Macedonia, Bulgaria, Romania, Turchia (ma l’elenco potrebbe continuare per quelle di altri continenti).
Nel comprensorio apuano non si può coltivare la vecchia illusione secondo cui il bianco sarebbe un’esclusiva locale, sia pure prestigiosa. Al contrario, bisogna prendere atto di una situazione che è cambiata in maniera radicale e continua ad evolversi secondo la ragionevole esigenza di valorizzare le proprie risorse, tipica di ogni Paese in possesso di una politica industriale degna di questo nome. Certo, esistono talune rendite di posizione collegate alla qualità ed alla tradizione, ma nel mondo globale sembrano ragionevolmente destinate ad ulteriori elisioni.
In talune sedi, a cominciare da quella sindacale, si è insistito parecchio sulla necessità di valorizzare il marmo, inteso come bene comune, mediante una più oculata politica di verticalizzazione. Si tratta di un’idea che in teoria nessuno potrebbe contestare ragionevolmente, ma quando si scopre che la crisi investe anche il prodotto finito, viene da chiedersi se il problema non stia altrove: nella carenza degli investimenti, nelle difficoltà di accesso al credito, nella mancanza di ricambi professionali, nella latitanza di una politica estrattiva e della certezza del diritto. In una parola, nel crollo della fiducia, che sta alla base di ogni intrapresa.
Detto questo, stracciarsi le vesti quando le serie storiche della produzione e delle vendite vanno verso il basso appare decisamente inutile. Sarebbe congruo, invece, predisporre un programma di possibili interventi anticiclici, d’intesa con tutte le forze produttive, sociali, e soprattutto politiche, in cui si prenda atto non tanto dei numeri, quanto delle cause che li hanno determinati, e si converga su strategie condivise, basate su misure normative, professionali e finanziarie prioritarie, al cui seguito potranno unirsi quelle di una promozione intelligente.
E’ una storia vecchia che peraltro, quando si parla del bianco, si ripropone troppo spesso in modo ripetitivo. Ergo, bando alle parole, e spazio ai fatti.