Vando D’Angiolo. Una vita per la pietra e per i valori umani: all’insegna della volontà e dell’ethos

Il mondo del marmo e della pietra si avvale di tradizioni plurimillenarie, a cui non è estranea la capacità di valorizzare al meglio alcuni protagonisti che hanno compreso la sua grandezza, e che sono stati in grado di tradurla in realizzazioni capaci di sfidare la prova del tempo, con una proiezione a lungo termine non aliena dall’esprimere aneliti di eternità. Ultimo di questi protagonisti è stato Vando d’Angiolo (1) il cui ruolo nel comparto lapideo dagli anni sessanta al primo ventennio del nuovo secolo ha avuto caratteri fondamentali, oltre che fortemente innovativi.

Il percorso professionale e civile di quest’Uomo “dal multiforme ingegno” ha dimostrato come si possano coniugare felicemente l’azione concreta ed operosa con la nobiltà dei principi etici e dei sentimenti, esorcizzando un comodo atteggiamento del mondo contemporaneo, propenso ad accogliere le deviazioni dell’egoismo, se non anche del nichilismo. Lo attestano la rapida ascesa dalla dura vita di montagna ai fasti dei molteplici riconoscimenti istituzionali, ed alle relazioni di altissimo livello coi massimi esponenti dell’architettura e della progettazione, quali Mario Botta, Bruce Graham, César Pelli, Renzo Piano, Kenzo Tange e tanti altri, per non dire dell’amicizia con artisti del calibro di Giuliano Vangi (2). Tali relazioni hanno contribuito a fargli guidare il Gruppo Campolonghi nella realizzazione di commesse ai più alti livelli mondiali: fra le tante, l’Opera House di Oslo, il Municipio di Tokyo e la Basilica di San Pio da Pietrelcina, a San Giovanni Rotondo. In qualche misura, il giudizio che meglio di tutti ha compendiato la vita di Vando è stato quello di Massimo Mallegni, suo buon amico e Senatore della Repubblica: “Ha fatto la storia” (3).

Nel 1960, quando la vita professionale del Dr. d’Angiolo era ancora agli inizi, la produzione lapidea italiana aveva raggiunto la quota di 835 mila tonnellate (4) mentre al giorno d’oggi, nonostante un andamento certamente  critico rispetto all’espansione mondiale, si ragguaglia – secondo le stime più accreditate – a circa sei milioni di tonnellate (5). Ebbene, non è azzardato presumere che una parte di questo successo sia dovuta all’apporto di chi, come Vando d’Angiolo, ha saputo affrontare il rischio d’impresa con investimenti produttivi idonei a soddisfare una domanda internazionale sempre più esigente ma altrettanto impetuosa, e con una promozione basata soprattutto sulla qualità del prodotto, e quindi sul livello professionale delle maestranze, senza trascurare una rapporto strettamente fiduciario con la clientela, secondo le regole commerciali del buon tempo antico. Ciò spiega come mai le aziende guidate da Vando d’Angiolo abbiano potuto bruciare le tappe anche in termini di volume d’affari, nell’ordine attuale dei cento milioni di dollari, ed a circa il sei per cento dell’export italiano di prodotti lapidei finiti.

Era molto sensibile ai contenuti espressivi della pietra ed al suo ruolo di motore dell’evoluzione sociale in contesti caratterizzati dalla carenza di altre risorse, ma non prescindeva dal considerare molto realisticamente il limite oggettivo ad un’espansione indefinita, sottolineando il ruolo della concorrenza, da cui scaturiscono velocità di crescita molto diverse da un Paese all’altro, con particolare riguardo “al decollo ormai definitivo di Paesi in via di rapido sviluppo come Cina, Brasile, India e Sud-est asiatico” ed alle conseguenze, quanto meno complesse, per quelli “di più antica vocazione lapidea”, ivi comprese le necessità di adeguati interventi (6).

 

 

Di qui, l’imperativo di non rinviare la soluzione di “nodi essenziali come quelli della legge quadro per le cave o dei finanziamenti per la professionalizzazione e la ricerca”; ma nello stesso tempo, il permanente bisogno di investire nella competitività, in guisa che “i prezzi rimangano remunerativi” assicurando “margini di gestione indispensabili” ad una politica di produttività, ben dimostrata dall’alto livello del giro d’affari per addetto nelle aziende del Gruppo Campolonghi. Concezione pragmatica quanto si voglia, ma fondata sulla corretta combinazione dei fattori produttivi, diversamente da quanto continua ad accadere con troppa frequenza in un settore come quello lapideo, caratterizzato dalla presenza di una quota tuttora ampia di unità aziendali con controlli approssimativi, se non anche carenti, degli equilibri fra costi e ricavi.

I riconoscimenti conferiti a Vando d’Angiolo nel corso di una vita esemplarmente operosa hanno avuto carattere sostanzialmente unanime, sia da parte istituzionale, sia da parte dei concorrenti più moderni ed attenti a mutuarne l’esempio, oltre che delle organizzazioni sindacali con cui le aziende del Gruppo Campolonghi si sono sempre confrontate in un clima costruttivo e volitivo che costituisce un ulteriore modello di riferimento. Non a caso, come ha riferito lo stesso Vando nella “conversazione” tenuta durante la cerimonia di consegna del “Campano d’Oro” dall’Università di Pisa, persino la banda di Azzano, suo paese natale, aveva intonato per lui l’Inno dei Lavoratori, sia in occasione della laurea, sia – tanti anni dopo – ricorrendo il cinquantenario della medesima Campolonghi: tutto ciò, “senza appartenenze né colorazioni” ma nel solo ossequio a “chi si impegna e chi lavora” (7). Si deve aggiungere non senza commozione che la  banda di Azzano ha suonato per la terza volta lo stesso Inno quando il feretro di Vando è giunto davanti alla Chiesa parrocchiale di Vittoria Apuana, per l’ultimo saluto.

Per completare il quadro di una forte personalità e di un confronto attivo coi momenti negativi che sono all’ordine del giorno nella vicenda umana, conviene aggiungere che seppe superare con successo i problemi conseguenti alla salute del cuore: fu colpito da tre infarti, ma seppe reagire con  esemplare forza d’animo ed indomito coraggio, quale novello “vir bonus cum mala fortuna compositus” di cui alla celebre definizione di Seneca. Non a caso, l’Uomo forte chiamato alla lotta contro le avversità si era dovuto affidare alle cure del celebre cardiologo Terence Kavanagh (8) che sarebbe diventato suo grande amico e che, grazie alla collaborazione del paziente, ne avrebbe fatto addirittura un maratoneta, facile ad incontrarsi di buon mattino negli allenamenti sulla spiaggia di Forte dei Marmi.

Aveva una grande propensione ad essere amico di tutti, trovando per chiunque una parola di affettuosa e sincera cordialità. Ciò non significa che abbia potuto contare sempre sulla reciprocità degli atteggiamenti e dei sentimenti, con particolare riguardo al rapporto con taluni colleghi della concorrenza a cui mancavano le sue doti di imprenditorialità capace di affrontare in modo adeguato e consapevole il rischio dell’intrapresa, e prima ancora, quelle di una relazione umana spontanea e costruttiva. D’altra parte, conosceva bene il mondo, e considerava la “realtà effettuale” come un fattore da gestire nella normale dialettica della vita. Al limite, facendo proprio l’assunto di Dante: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.

Vando d’Angiolo lascia un esempio di vita fatto di costante impegno in un Gruppo industriale di straordinaria dimensione nell’ambito del comparto lapideo, creato sostanzialmente da zero, ma nello stesso tempo, una lezione umana e civile suffragata dalle costanti attività nel campo del volontariato e della collaborazione sociale, a cominciare dalla “Fondazione Mite Giannetti d’Angiolo” in memoria della mamma, cui fu sempre fedele quale prima artefice del suo successo.

 

 

Quella di Vando è stata una vita esemplare all’insegna della responsabilità e della sua interpretazione in chiave sociale, dove “la linea del possibile – come avrebbe detto Benedetto Croce – si sposta grandemente mercé la forza inventrice della volontà che veramente vuole”. E quindi, di un messaggio destinato alla riflessione, ed alla conseguente condivisione di valori “non negoziabili” come quelli che suffragano la vera nobiltà degli Uomini migliori e rendono la vita degna di essere vissuta.

 

Annotazioni

(1) – Vando d’Angiolo (18 luglio 1932 – 27 dicembre 2019) è stato un ”self-made man” che ha tradotto in pratica l’assunto della scuola filosofica medievale secondo cui gli uomini si differenziano tra di loro, in primo luogo per il diverso grado di impegno volitivo. Nativo di Azzano (Seravezza), sulle alte pendici del Monte Altissimo, che aveva fornito a Michelangelo il marmo per qualcuna delle sue opere maggiori, ebbe un’infanzia difficile, aggravata dalla perdita del padre Giuliano, scomparso in Jugoslavia durante la plumbea vicenda della Seconda Guerra mondiale (ed insignito della Medaglia di cui alla Legge 30 marzo 2004 n. 92, conferita a Vando ed al fratello Mons. Danilo dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) ma ebbe una guida eticamente importante nel nonno Benvenuto, e soprattutto nella mamma Mite, che fece ogni sacrificio per consentire a Vando e Danilo di compiere gli studi necessari ad acquisire la libertà dal bisogno, unitamente alla cultura idonea a farne uomini liberi. Nonostante le difficoltà economiche e logistiche, Vando conseguì il diploma di ragioniere nel luglio 1951, ed anche in virtù del solerte interessamento materno venne assunto subito dalla Società Henraux di Querceta (Seravezza), leader nell’estrazione e lavorazione del marmo, in cui opera dal 1821: col primo stipendio si iscrisse alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Pisa, iniziando un duro percorso di “lavoratore studente” concluso con la laurea (luglio 1957). Furono anni decisivi per la formazione anche dal punto di vista professionale: infatti, l’esperienza maturata in Henraux fu assai poliedrica, dal momento amministrativo a quello commerciale, ma sempre in stretta connessione con quello tecnico, alle dipendenze di un imprenditore illuminato quale fu il Cav. Gr. Cr. Erminio Cidonio, anche per la sua vocazione al mecenatismo ed alla sinergia tra marmo ed arte in tempi non ancora maturi, tanto che nel 1964 avrebbe dovuto lasciare l’incarico per dedicarsi alla suggestiva esperienza di “Officina”. La sua gestione, peraltro, non aveva saputo offrire a Vando d’Angiolo le opportunità di sviluppo a cui aveva già dimostrato di poter aspirare, tanto da indurlo alle dimissioni, assieme al collega Baldo Frediani, e da costituire assieme a lui un nuovo Soggetto societario, che inizialmente avrebbe dovuto operare nel mondo della consulenza, ma che si sarebbe rapidamente orientato, grazie alle ottime relazioni già acquisite da Vando anche in campo internazionale, dapprima verso l’intermediazione lapidea nell’ambito dei prodotti lavorati, e poi verso l’attività di trasformazione industriale: furono gli anni proficui della “Freda” (acronimo dalle iniziali di cognome dei Soci). Nel maggio 1968, ecco il nuovo balzo, con l’acquisizione di una quota del 16,5 per cento della Campolonghi di Montignoso (Massa) sia da parte di Vando che di Frediani, a seguito delle esigenze di potenziamento operativo e finanziario dell’azienda, di origine argentina, specializzata nel campo sempre più emergente del granito, mentre il secondo passaggio, compiutosi fra il 1975 ed il 1976, vide il raggiungimento della maggioranza da parte di Vando, ferma restando la presenza di Frediani che si sarebbe ritirato nel 1986 per limiti di età, lasciando al Socio la totalità delle azioni. Il resto è storia più recente, con l’acquisizione di due importanti partecipazioni in complessi estrattivi del comprensorio, che faceva seguito a quella, più datata, dell’Olympia Marmi di Pietrasanta ed all’avviamento di una segheria di granito in Sardegna, senza trascurare l’attività nel volontariato che avrebbe portato il Dr. d’Angiolo a ricoprire nel settennio 1978-1985 l’incarico di Consigliere Tesoriere della Federazione Nazionale Pubbliche Assistenze (FNPA). Nel contempo, significativi e prestigiosi furono i tanti riconoscimenti, sia istituzionali che privatistici, da lui conseguiti.

Al riguardo, basti ricordare il conferimento di quelli di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana (1970), di Cavaliere Ufficiale (1977), di Commendatore (1990), ed infine quello di Cavaliere del Lavoro (2007) per gli alti meriti conseguiti nello sviluppo dell’occupazione fino ad alcune centinaia di unità, senza dire di un autentico fiore all’occhiello del Gruppo: quello di non avere mai effettuato licenziamenti, e di non avere mai usufruito degli ammortizzatori sociali. Altrettanto prestigiosa è stata la consegna del “Campano d’Oro” (2013), quale riconoscimento dell’Università di Pisa riservato annualmente al proprio laureato che si sia maggiormente distinto nella vita civile (già conferito, tra gli altri, anche al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi). Tra le realizzazioni di Vando d’Angiolo si deve poi ricordare la “Fondazione Mite Giannetti d’Angiolo” in onore della mamma, avente lo scopo di aiutare i giovani della montagna apuo – versiliese nel loro percorso di studio e di formazione professionale; senza dire degli incarichi rivenienti dal mondo lapideo, tra cui quelli di Presidente del Distretto lapideo locale (2003-2007) e poi, del Comitato Interprovinciale lapideo di Lucca, Massa Carrara e La Spezia.
(2) – Per un significativo inquadramento delle motivazioni poste alla base del sodalizio umano ed estetico con Giuliano Vangi, cfr. Vando d’Angiolo, Un artista, un maestro, un uomo, in “Marmo per l’Architettura – International Stone Magazine”, Gruppo Editoriale Faenza, settembre 1997, pagg. 62-67. A giudizio dell’Autore, nella multiforme opera del Vangi e nella sua creazione di una “serie di autentici capolavori” è facile riconoscere “ l’impronta del Genio”. Ovvero, quel complesso di intuizioni e di valori estetici e civili che erano patrimonio comune, da un lato, dell’artista, e dall’altra, del capitano d’industria.
(3) – L’espressione è sintetica, ma efficace e pertinente. Infatti, Vando d’Angiolo fu sempre attento alle vicende storiche del settore ed agli aspetti umani di una vita davvero dura come quella del cavatore, che un tempo sfiorava i limiti dell’impossibile: al riguardo, giova ricordare il suo ricorrente contributo alla rievocazione storica della lizzatura, quale processo quasi esclusivamente manuale di discesa dei blocchi dalle cave di montagna al piazzale di carico su mezzi di trasporto: momento fortemente rischioso, al pari di tante altre mansioni del lavoro estrattivo. Eppure, gli uomini delle cave, come Vando sapeva perfettamente, erano in grado di esprimere, quali “creditori di anima agli occhi del mondo”, alti livelli di sensibilità culturale (sull’argomento, cfr. Luciano Casella, I Cavatori delle Alpi Apuane, La Nuova Europa Editrice, Carrara 1950).
(4) – Manuale dei marmi graniti e pietre, a cura di Lucio Calenzani e Carlo Montani, Volume secondo, Fratelli Vallardi Editori, Milano 1983 (pag. 150, tav. 6).
(5) – Carlo Montani, XXX Rapporto Marmi e Pietre nel mondo, Casa di Edizioni Aldus, Carrara 2019 (pag. 242, tav. 152). Dal canto suo, l’esportazione lapidea italiana è cresciuta dalle 550 mila tonnellate spedite all’inizio degli anni sessanta ai 2,65 milioni di tonnellate inviate all’estero nel 2018, con un tasso annuo di sviluppo nell’ordine del 6,5 per cento (riferito all’ultimo sessantennio).
(6) – Vando d’Angiolo, Amministratore delegato del Gruppo Campolonghi, Intervista VIP, in “Il Giornale del Marmo”, Gruppo Editoriale Faenza, aprile-maggio 1995, anno XXXI n. 194, pagg. 59-60. La conclusione del colloquio con l’intervistatore ribadiva la convinzione secondo cui “la concorrenza stimola il progresso” mentre quello da risolvere quale atto propedeutico di base resta “un problema di benintesa cultura industriale”. Sulla permanente necessità di ottimizzare la produttività tramite gli investimenti, avrebbe poi

insistito in un’ulteriore intervista di quattro anni dopo, anche nell’ottica di una concorrenza meno squilibrata, e di un confronto basato soprattutto su qualità e servizio anziché sulla gestione perfettibile (cfr. “Il Giornale del Marmo”, Gruppo Editoriale Faenza, gennaio-febbraio 1999, anno XXXV n. 217, pagg. 51-54).
(7) – AA.VV., Il conferimento a Vando d’Angiolo del Campano d’Oro 2013, in “Il Rintocco del Campano”, Rassegna periodica dell’Associazione Laureati Ateneo Pisano, maggio-dicembre 2013, anno XLIII n. 115, Edizioni ETS, pagg. 4-27 (la “conversazione” di Vando, che fa seguito alla “laudatio” del Prof. Carlo Casarosa, è riportata nella parte conclusiva, unitamente all’elenco degli insigniti dal 1971 in poi).
(8) – Il Prof. Terence Kavanagh, Direttore del “Toronto Rehabilitation Centre”, è stato un personaggio di prioritaria importanza terapeutica nella vita di Vando, unitamente al cardiochirurgo Sir Magdi Yacoub di Londra, autore dei due fondamentali interventi.

Distretti del marmo e della pietra: un’occasione perduta

Il mondo del marmo e della pietra cresce in fretta, tanto da avere triplicato la produzione e gli impieghi nel giro di una ventina d’anni: merito dell’avanzamento tecnologico che ha permesso di contenere i costi e di automatizzare ogni tipo di lavorazione, comprese quelle artistiche; e della costante rivalutazione del lapideo da parte della progettazione. Non rutti i Paesi, peraltro, hanno progredito in misura proporzionale: alcuni hanno fatto registrare incrementi quasi esponenziali, come nel caso della Cina, dell’India e di altre realtà asiatiche, mentre altri hanno segnato il passo.

Tra i casi di ristagno c’è quello dell’Italia, che non ha conservato le cifre assolute di produzione e di esportazione, ed ha visto fortemente ridimensionate le sue quote di mercato persino nel grezzo, ma soprattutto nel prodotto finito. Le cause maggiori di questa congiuntura sono state analizzate più volte e sono state individuate nella scarsa competitività di alcuni costi, come quelli energetici e finanziari; nella forte parcellizzazione aziendale; nelle difficoltà del credito e degli investimenti; e nelle permanenti carenze di comunicazione e di promozione.

Per porre rimedio a questa situazione, che avrebbe bisogno di adeguati interventi anche dal punto di vista istituzionale, erano stati creati otto Distretti settoriali, cui altri avrebbero potuto aggiungersi, secondo gli auspici di varie zone produttive. A parte quelli trainanti di Carrara e di Verona, non erano stati trascurati comprensori di buona consistenza (Friuli, Lazio, Liguria, Sardegna, Trentino), titolari di note esclusive, importanti anche dal punto di vista del commercio internazionale. La Sardegna, anzi, era presente con due diverse realtà (Gallura e Baronia).

I Distretti, che si auspicava potessero impostare azioni comuni di tutela del prodotto in chiave ambientale, distributiva e tecnologica, e perseguire obiettivi di ripresa ed ulteriore sviluppo, riguardavano un ventaglio merceologico esaustivo che andava dal marmo al granito, o dall’ardesia al porfido, vantando un elevato grado di specializzazione da cui discendeva, fra l’altro, che non fossero concorrenti ma complementari. Si potrebbe aggiungere che il carattere ufficiale dei Distretti pareva in grado di superare un altro fenomeno tipicamente italiano come la frammentazione associativa, caratterizzata, all’epoca, dalla presenza di oltre venti Soggetti operativi, la maggior parte dei quali a carattere locale, con evidenti dispersioni di energie.

Secondo le rilevazioni di competenza i Distretti potevano contare su circa 2.500 Aziende, con un’occupazione di 18.300 unità lavorative, pari, rispettivamente, al 29 ed al 37 per cento delle rispettive cifre globali italiane: gli addetti per Azienda risultavano 7,4 e superavano di oltre un quarto la corrispondente media nazionale (con un livello massimo di 13,2 a Verona, supportato dalla presenza di parecchie Aziende di cospicua dimensione, ed un livello minimo di 3,3 in Gallura, dove l’attività, prevalentemente estrattiva, era affidata a piccole squadre di cavatori). Si trattava, insomma, di una realtà diversificata ma comunque notevole, che costituiva una buona maggioranza relativa, anche se in altri comprensori si poteva giustamente aspirare ad analoghe attenzioni (si pensi ad Ossola, Botticino, Valle del Chiampo, Carso, Travertino Romano, zone tipiche di Puglia e Sicilia).

La logica distrettuale aveva dato buona prova in altri settori produttivi importanti, e quindi non c’era motivo di ritenere che ciò non potesse accadere anche per il marmo e per la pietra. Occorreva, naturalmente, che dalla fase programmatica si passasse rapidamente a quella operativa, traducendo la volontà politica in atti concreti, e dotando i Distretti delle strutture e dei mezzi finanziari indispensabili a portare a compimento, con efficacia e senza discriminazioni, un programma di forte valenza settoriale, tenuto conto delle notevoli incidenze socio-economiche e distributive del lapideo.

Ebbene, nulla di tutto ciò è accaduto: anzi, si è lasciato che i Distretti cessassero quasi di esistere, abbandonati dalla volontà politica, ma anche da quella imprenditoriale e dalle forze sociali, con un tacito “de profundis” indotto dalla rassegnazione, e prima ancora, dalla ritrosia nei confronti di qualsivoglia investimento collegato ad una logica di programma. Nel frattempo, il mondo lapideo ha continuato a correre, e le quote italiane di produzione, interscambio e consumo domestico, per non dire dei livelli occupazionali, si sono ulteriormente ridotte, lasciando agli altri protagonisti la conquista di ogni antico primato italiano (con la sola eccezione superstite di quello tecnologico). Si tratta di un bilancio negativo, cosa che può sempre accadere nella complessa congiuntura internazionale; ma soprattutto sconfortante, perché costituisce la conferma di un approccio dilettantesco, basato sulle chiacchiere, con cui i problemi del comparto lapideo italiano vengono affrontati ad ogni livello, e regolarmente lasciati senza soluzione, innescando gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.

La storia non è maestra di vita, perché altrimenti non si continuerebbe a commettere gli errori del passato, ma quella dei Distretti nazionali del marmo e della pietra merita di essere conosciuta ed approfondita, perché costituisce un ulteriore esempio di occasioni perdute: cosa di cui l’Italia, purtroppo, continua ad essere maestra.

Valori estetici e culturali della pietra

La Scalata foto di Paula Elias

Le tradizioni della pietra si perdono nella notte dei tempi, cosa che ribadisce, assieme alla diffusione in tutto il mondo, la sua straordinaria universalità da riferire anche alla costanza, o meglio alla continuità con cui è stata utilizzata a scopo celebrativo, ancor prima che nelle costruzioni residenziali e nell’edilizia di rappresentanza. Del resto, non è forse vero che nel secondo libro della Bibbia viene data notizia della costruzione di un altare con le colonne di marmo? Evidentemente, il prodotto di natura aveva già acquisito un significato simbolico che poi ha confermato e che ribadisce la sua specifica peculiarità espressiva.

Al di là di questi valori, la pietra fu materiale da costruzione sin dall’antichità. La prima città di cui si conserva memoria storica, Gerico, venne edificata facendone ampio uso strutturale, che precede quello decorativo ma consente di scoprirlo in maniera quasi contestuale. Poi, ebbe ampio spazio nell’architettura religiosa ed in quella militare: in Brasile, ben prima che il primo telaio iniziasse a tagliare i blocchi nello scorcio conclusivo dell’Ottocento, i primi impieghi del granito furono destinati alle fortezze ed alle chiese.

La pietra è cultura, ancor prima di essere un prodotto industriale. Ciò si deve al suo impiego nell’arte plastica, non meno che nell’architettura: anche in questo caso, con tradizioni che risalgono alle civiltà più antiche, come quelle egiziana e greca, da cui sono stati tramandati autentici e sorprendenti capolavori. La pantera in diorite nera che fa bella mostra di sé al Louvre e che risale al terzo millennio avanti Cristo è un esempio particolarmente suggestivo dei livelli di assoluta perfezione che potevano essere raggiunti coi mezzi dell’epoca, oltre tutto lavorando un materiale di straordinaria durezza.

Oggi, l’uso lapideo è diventato ancora più esteso, e per usare un paradosso, ancora più universale, nel senso che ha perduto i caratteri elitari che aveva conservato fino alla metà del secolo scorso, senza rinunciare alle altre prerogative esaltate da uno straordinario progresso tecnico. Basti pensare che secondo note valutazioni compiute dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Siena i consumi di marmi e pietre che si sono avuti negli ultimi 70 anni hanno già superato tutti i precedenti, dai primordi in poi. Come si vede, la democratizzazione degli impieghi non è una trovata promozionale ma una realtà incontestabile.

La cultura della pietra ha trainato il consumo e non viceversa, intendendo quella di marmo, travertino, granito, ardesia e di tante altre pietre che hanno fruito del principio di iterazione dei comportamenti su cui si basa l’assunto pubblicitario. Si tratta di una cultura legata al fenomeno estetico e ad un concetto universale di bellezza ma non meno vincolata al fattore tecnologico, perché senza gli indici di resistenza e di durata che può vantare, per non dire degli altri parametri, il prodotto lapideo di natura non avrebbe potuto ascrivere un successo senza soluzioni di continuità, laddove parecchi materiali concorrenti hanno avuto glorie importanti ma effimere.

Per concludere con un noto aforisma, si può dire che se la pietra non fosse esistita si sarebbe dovuto inventarla. Per fortuna esiste, ed in misura talmente rilevante che nonostante la progressione degli impieghi molti giacimenti sono stati appena “assaggiati” mentre in diversi Paesi trainanti le valutazioni delle riserve accertate da coltivare e da valorizzare hanno permesso di definirne la durata in tempi biblici, talvolta secolari ed in qualche caso millenari. Va da sé che la pietra sarebbe un materiale “inerte” se non fosse intervenuto l’uomo con la sua capacità di scoprirne i pregi e le straordinarie capacità espressive; ma è altrettanto vero che senza il prodotto lapideo l’uomo sarebbe rimasto orfano di una “way of life” che, anche suo tramite, è diventata diversa e certamente migliore.

Morti bianche alle cave di Carrara

Varata a Carrara (Foto Daniele Canali / Marmonews.it)

La storia continua tristemente a ripetersi. Un altro lavoratore, stavolta addetto alla movimentazione di magazzino, ha perduto la vita in un deposito di Marina di Carrara: le circostanze dell’incidente sono tuttora da approfondire, ma certamente surreali, perché secondo le cronache immediate il blocco di marmo che ha colpito questo nuovo Caduto era già stato posizionato. Come se non bastasse, c’è un particolare allucinante: il lavoratore, un giovane di 37 anni che lascia la moglie ed un figlio piccolo, aveva un contratto settimanale, ed aveva iniziato a prestare la propria opera da due giorni, verosimilmente senza alcuna specifica preparazione professionale.

Cave e cantieri sono entrati immediatamente in sciopero, secondo un rituale che si può comprendere in chiave emozionale, ma che certamente non risolve il problema della sicurezza, nonostante tutti gli sforzi che si sono compiuti a livello normativo ed organizzativo. Senza voler anticipare le conclusioni delle indagini che saranno esperite dalla Magistratura competente e dagli Organi di controllo, sembra di poter dire che esistano tuttora sacche di pressappochismo, se non anche di faciloneria, sempre da condannare: a più forte ragione, in un settore come quello lapideo dove il problema della sicurezza è assolutamente fondamentale, in primo luogo a livello preventivo.

Il Sindacato di maggiore riferimento nazionale e locale ha parlato senza mezzi termini di fallimento, ma tutti sanno che quella di estrazione e lavorazione del marmo e della pietra è un’attività importante, destinata ad andare avanti nonostante gli incidenti, il cui numero colloca il settore fra i più pericolosi, nonostante uno sviluppo tecnico che non è azzardato definire esponenziale. Proprio per questo, occorre che le attenzioni siano effettive, e corrispondano ad un vero e proprio imperativo categorico, quand’anche dovessero condizionare, comunque marginalmente, i livelli della produttività. E’ un assunto di cui bisogna prendere atto con scienza e coscienza, anzi tutto in campo istituzionale, ma nello stesso tempo, da parte delle imprese e di tutte le forze sociali.

Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, scrisse che la vita è cosa grottesca, inutile e senza senso, con una dichiarazione oggettivamente opinabile, ma in qualche caso non del tutto impertinente, come si può dire per certi incidenti sul lavoro dovuti ad incuria ed incompetenza. Un cavatore apuano dei primi anni cinquanta aveva scritto, assai meglio di Freud, che “si lavora perché ciascuno di noi è come una ruota di vita nell’ingranaggio del mondo” e che gli uomini del marmo sono “creditori di anima”. Ecco un alto messaggio di speranza e di fede che nel momento di questo nuovo lutto e della partecipazione al dolore dei familiari e dei lavoratori, è bene affidare alle riflessioni comuni, ma soprattutto all’impegno collettivo che ne deve necessariamente scaturire.