Cinquantenario della fiera scaligera

MarmomaccLa Fiera veronese di marmi e pietre, e delle tecnologie per la loro lavorazione, si appresta a celebrare la cinquantesima vernice (2015): un traguardo obiettivamente prestigioso, anche a prescindere dal fatto che nel frattempo non poche manifestazioni analoghe siano sorte ed abbiano cessato di esistere dopo una vita più o meno lunga, come è accaduto in Europa e nel resto del mondo, nonostante lo sviluppo quasi esponenziale fatto registrare dal comparto lapideo e le crescenti esigenze promozionali che ne sono derivate.

In realtà, la Fiera vide la luce nella sede originaria di Sant’Ambrogio Valpolicella sin dal 1961, ma compie il cinquantennio soltanto ora, perché le prime edizioni furono caratterizzate dalla cadenza biennale, con una scelta che venne riveduta nel breve termine a favore dell’appuntamento annuo, alla stregua del grande successo tecnico, economico e commerciale che la rassegna aveva ascritto: in Italia l’espansione dell’edilizia e dei settori collegati procedeva alacremente, e gli scambi internazionali cominciavano a manifestare i segni di una crescita che sarebbe proseguita in modo quasi ininterrotto sino ai giorni nostri.

Il comprensorio scaligero ebbe il merito di coniugare le attese dei marmisti e dei produttori di tecnologie con quelle di un mercato in rapida crescita, creando un punto d’incontro in cui anche le iniziative collaterali ebbero un ruolo importante di documentazione e di arricchimento culturale, ma dove il confronto propositivo tra offerta e domanda divenne un ulteriore mezzo di crescita nell’ambito di una concorrenza capace di avviare e potenziare un forte effetto moltiplicatore.

Erano tempi di grandi speranze, messe a fuoco sin dai primi anni cinquanta: anzi tutto nella grande Campionaria intersettoriale di Milano, dove marmi e macchine avevano già dimostrato la propria idoneità ad inserirsi nello sviluppo con un apporto significativo, tecnicamente all’avanguardia e propenso a rivedere i canoni retorici che avevano contraddistinto gli impieghi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Poi, la Biennale vicentina aveva richiamato le attenzioni di progettisti e costruttori sulla competitività tecnologica, oltre che decorativa, del marmo e della pietra, anche se qualcuno non aveva mancato di stracciarsi le vesti denunciando una crescita abnorme dei costi della manodopera, pervenuti ad un milione di lire in ragione annua (l’equivalente di 500 euro): tutto sommato, era una posizione di retroguardia, perché proprio in quell’epoca l’avvento del diamante industriale nei processi di lavorazione avrebbe dato luogo alla progressiva riduzione di un’incidenza del fattore professionale precedentemente prioritaria.

A Sant’Ambrogio, e poi a Verona, si fece un salto di qualità, soprattutto nel senso di quella democratizzazione degli impieghi che sarebbe diventata il “leit-motiv” dei decenni successivi, nel quadro di un progressivo contenimento dei costi e dei prezzi, pur nella necessaria salvaguardia degli equilibri di gestione. Ciò, come si diceva, senza dimenticare gli argomenti legati alla sicurezza ed alla cultura: qui, basti ricordare, fra gli altri, l’elevato livello dei convegni dedicati alla tutela dell’ambiente di lavoro ed al ruolo del marmo nell’edilizia religiosa, che per vari anni si tennero nell’ambito della Fiera.

Oggi, in occasione del cinquantesimo genetliaco della manifestazione, tutto è cambiato: la produzione lapidea italiana, pur essendo cresciuta di circa quattro volte in cifra assoluta rispetto a quella dei primi anni sessanta, non è più leader nel mondo, avendo ceduto il passo quantitativo ai Paesi extra-europei che vanno per la maggiore, quali Cina, India, Turchia e Brasile, ma conserva un primato professionale tanto più importante in quanto esteso al momento tecnologico, dove la leadership dell’Italia a livello mondiale è un fattore indiscusso, con un’esportazione estesa a 120 Paesi di tutti i Continenti. C’è di più: se la crescita del mondo lapideo è stata davvero impetuosa, ciò si deve alla funzione trainante dell’impiantistica italiana ed al contributo di un “know-how” di escavazione e lavorazione che si traduce in livelli massimi di ricerca applicata e di incremento delle rese.

In questo senso, il supporto fornito dalla Fiera di Verona è stato altrettanto importante, dando luogo ad una modificazione strategica del settore lapideo la cui evoluzione verso dimensioni compiutamente industriali si è fatta irreversibile: senza la Fiera ed i suoi flussi incessanti di partecipazioni, di visite, e naturalmente di contratti, la crescita sarebbe stata meno accelerata. Forse, non si sarebbe ancora realizzato l’assunto quasi icastico di cui all’annuncio dell’Istituto di Scienze della Terra dell’Università di Siena, secondo cui gli impieghi lapidei dell’ultimo cinquantennio avrebbero superato quelli di tutte le epoche precedenti messi assieme.
Sono passati più di 200 anni da quando il celebre scrittore François René de Chateaubriand, che Napoleone aveva inviato a Roma quale Segretario d’Ambasciata, si aggirava tra i ruderi carichi di gloria e di ricordi, mettendosi in tasca frammenti di alabastro, porfido ed altri lapidei di pregio, cui riconosceva uno straordinario valore simbolico. Nel nuovo millennio, non c’è più bisogno di un siffatto “souvenir”: basta venire alla Fiera di Verona, dove l’abbondanza di materiali e di campionature è di tale ampiezza da soddisfare il professionista più esigente, per non parlare dei cataloghi e delle pubblicazioni specializzate. Non basta: da 40 anni marmi e pietre sono stati riconosciuti materiali di interesse strategico, ed in quanto tali, idonei ad avviare processi di sviluppo dove altri settori sarebbero “strutturalmente inidonei”.

Si tratta di una modificazione epocale, a cui la Fiera ha contribuito in maniera tangibile, ma soprattutto continua, partecipando alla crescente diffusione degli impieghi, e quindi all’ottimizzazione funzionale ed estetica della nostra “way of life”. A mezzo secolo dalle origini, è un traguardo superiore ad ogni pur ottimistica previsione, ma nello stesso tempo, un punto di partenza verso nuovi, importanti obiettivi.

Ruolo dell’industrializzazione estrattiva

(Foto Daniele Canali)

(Foto Daniele Canali)

Il progresso tecnologico ha coinvolto tutte le fasi del processo produttivo lapideo, a cominciare da quella di cava, dove la permanenza fisiologica di maggiori spazi per l’autonomia decisionale nell’impostazione dei programmi e nella soluzione dei problemi non contraddice un apporto sempre più determinante dei mezzi meccanici ed una crescita quasi esponenziale dei rendimenti. L’attività estrattiva è diventata industriale nel momento in cui le innovazioni tecniche hanno permesso di pianificare la produzione di volumi molto importanti di marmo e pietra, senza pregiudizi per le misure ottimali dei blocchi e per l’omogeneità qualitativa.
L’utilizzo di un’impiantistica avanzata, come – ad esempio – il filo diamantato o le macchine escavatrici a catena, ha indotto una forte crescita della produttività, non solo per il pur determinante risparmio di manodopera, ma nello stesso tempo per la diminuzione altrettanto significativa degli sfridi, soprattutto nei giacimenti di struttura compatta. Oggi, diversamente da alcuni decenni or sono, la quota dell’informe è andata diminuendo anche nell’estrazione del marmo, perché la tecnologia consente di predisporre materiali di misura anche per la destinazione a macchine tagliatrici: ciò, sia nell’escavazione in senso stretto, sia nell’impiantistica collaterale diretta ad ottimizzare le dimensioni del grezzo.
E’ inutile aggiungere che il ruolo degli investimenti è importante anche per quanto riguarda la disponibilità di mezzi semoventi (escavatori e pale meccaniche) da impiegare nei lavori di preparazione, nell’attacco produttivo del giacimento,e nell’ottimizzazione del “lay-out” di cava, grazie ad un rapido asporto degli sfridi, e quando necessario, del cappellaccio.
La gestione della cava è impresa complessa, che chiama in causa la professionalità direttiva e quella non meno importante delle maestranze, che non a caso, almeno nei Paesi più sviluppati settorialmente, sono coinvolte in proprio (si pensi all’importanza del fenomeno cooperativo) nel perseguimento di risultati quantitativamente e qualitativamente avanzati. Soprattutto, è impresa impegnativa anche sul piano finanziario: basti pensare al capitale necessario per installare un gruppo perforatore, od anche una pala ad alta produttività; agli ammortamenti accelerati che dovrebbe essere buona norma prevedere, visto lo stress a cui sono sottoposti i macchinari e le attrezzature di cava; e naturalmente, al rischio riveniente dalla natura dei giacimenti, a prescindere dai risultati delle ricerche preliminari, sempre elastici.
Al di là dei dettagli tecnici, familiari ad ogni buon cavatore, ciò che preme mettere in evidenza è la necessità di adeguati supporti all’industrializzazione estrattiva, di ovvia importanza anche per le fasi a valle. In particolare, sarebbero indispensabili la certezza del diritto a medio e lungo termine, senza la quale ogni propensione ad investire, anche nell’ottica di massima sicurezza, non è in grado di svilupparsi funzionalmente; un regime ambientale che statuisca in maniera chiara dove l’impresa estrattiva possa operare senza i lacci e gli ostacoli imposti da malintese pregiudiziali ecologiste; e naturalmente, la disponibilità di adeguate infrastrutture.
In molti contesti avanzati, la carenza di questi fattori sta penalizzando in modo sempre più percepibile l’attività estrattiva e favorisce un’importazione di grezzi, in specie dal terzo mondo, che ha raggiunto livelli impensabili (basti dire che 60 anni orsono gli acquisti italiani dall’estero ammontavano a 10 mila tonnellate mentre nel 2014, pur restando lontano dai precedenti massimi, sono pervenuti a 1,1 milioni di tonnellate) per estendersi allo stesso prodotto finito (la cui importazione italiana, sempre nello scorso esercizio, è stata pari a circa 270 mila tonnellate, cui corrispondono cinque milioni di metri quadrati a spessore standard).
L’industrializzazione delle cave ha permesso al comparto lapideo di compiere un’evoluzione strategica capace di triplicare la produzione mondiale in poco più di un decennio, ma questa crescita senza precedenti ha coinvolto marginalmente i Paesi europei, determinando una valorizzazione non ottimale delle loro risorse. Occorrono, in tale ottica, strategie correttive consapevoli, per la doverosa tutela di un’attività con grande rilevanza economica, e soprattutto, dai valori professionali assai elevati.

Nuovi mercati della pietra

Foto Daniele Canali

Foto Daniele Canali

La dimensione globale dell’assetto distributivo di settore ha ridotto le distanze e creato nuovi problemi di mercato, perché il mondo è diventato più piccolo e tutti i produttori possono vantare opportunità di collocamento della propria offerta, sostanzialmente dovunque. Ne consegue che la competizione si è fatta più selettiva, e che il problema di combinare al meglio i fattori della gestione acquista connotazioni complesse.
La questione dei nuovi mercati e della relativa ricerca è nel mirino di tutte le imprese organizzate, ma è arrivato il momento di comprendere come si tratti, tutto sommato, di un problema relativamente falso. Se per mercati nuovi si intendono Paesi in cui finora nessuno abbia operato in concreto, è sottinteso che non esistono: in pratica, su 192 Stati sovrani rappresentati ufficialmente alle Nazioni Unite (con la sola eccezione di Taiwan e della Santa Sede), non ne esiste uno che non abbia partecipato all’interscambio lapideo, e nel caso specifico, all’importazione. Lo stesso dicasi per gli impianti e per i materiali di consumo.
Va da sé che la Cina o gli Stati Uniti, con tutto il rispetto per le realtà minori, non hanno le stesse capacità d’acquisto del Bhutan o di Samoa, a parte il fatto che gli approvvigionamenti cinesi si rivolgono in larghissima prevalenza al grezzo, mentre nel Nord America si verifica il fenomeno contrario: ne scaturiscono, secondo logica, orientamenti decisivi sull’offerta dei fornitori. Nondimeno, l’esistenza del mercato globale è fuori discussione, e coinvolge tutti i Paesi, anche se il numero delle offerte concorrenti ha un carattere naturalmente elastico, in funzione delle varie capacità d’acquisto.
Ciò significa che, alla fine, non si pone il problema di andare alla ricerca di nuovi mercati, quanto quello di mettere a loro disposizione un ventaglio più articolato di proposte, di comprendere le loro esigenze effettive, e ben s’intende, di coniugare al meglio qualità e prezzo.
Oggi, chi si limita a vendere il blocco o la lastra grezza non può sperare di avere grandi prospettive in un mercato come quello statunitense: caso mai, dovrà rivolgersi ai Paesi trasformatori, cominciando proprio dalla Cina (che peraltro nel 2014 ha ridotto sensibilmente gli acquisti per valorizzare la produzione domestica), ma ben sapendo che esistono altre situazioni di sviluppo delle attività trasformatrici: ad esempio, quelle di Polonia, Grecia, Oman e della stessa India, da una parte per il granito, e dall’altra per i calcarei di pregio. Analogamente, chi distribuisce il manufatto deve rivolgersi prevalentemente alle economie mature, e per quanto riguarda i produttori dei Paesi sviluppati, pensare all’offerta di merci ad alto valore aggiunto, se non anche di nicchia, dove la qualità presume alti livelli di esperienza, di professionalità, e non ultima, di creatività.
In ogni caso, è impensabile che un’impresa moderna, per quanto organizzata ed in possesso di dimensioni significative, ritenga di poter vendere tutto a tutti. Anche se questo disegno fosse paradossalmente possibile sul piano tecnico, dovrebbe confrontarsi con la necessità di stabilire una scala di priorità in funzione di costi e ricavi. Sia pure tra difficoltà e resistenze, si va diffondendo la prassi di una progressiva specializzazione, in cui coloro che offrono marmette a piano di sega debbono rivolgersi a mercati diversi da quelli dell’arredo-bagno o dei piani da cucina, della funeraria, e via dicendo.
Naturalmente, tutto è relativo. In questo senso, non esistono mercati nuovi in assoluto, ma tutti i mercati possono essere tali per l’una o per l’altra impresa, e specificamente per quelle di più recente comparsa al proscenio internazionale. Affermarlo può sembrare banale, ma non è inutile rammentarlo, in un settore che in diversi casi è tuttora governato da un approccio empirico ai problemi della gestione, se non anche da generose illusioni.

Rottamazione delle Fiere – Il caso di Carrara

 

Da cima Canalgrande (Foto Daniele Canali)

Da cima Canalgrande (Foto Daniele Canali)

Al pari delle infinite cose umane, anche le Fiere hanno un inizio ed una fine, e quelle di marmi e pietre non fanno eccezione. In tempi ancora recenti, la loro proliferazione aveva raggiunto un’accelerazione da primato, ma poi la crisi mondiale ha dato luogo ad un fenomeno selettivo tuttora in atto: diverse manifestazioni hanno chiuso i battenti, mentre altre hanno consolidato le posizioni di leadership che i mercati avevano conferito loro, in maniera inequivocabile.

Non è il caso di fare esempi che gli operatori del lapideo conoscono molto bene, ma si può dire che diversi Paesi, persino dell’Asia, dove pure si concentra la maggioranza assoluta di produzione e distribuzione, hanno perduto la propria Fiera: pensiamo a Giappone, Corea del Sud, Singapore, Il fenomeno, del resto, si estende a diversi esempi significativi dell’America Latina e dell’Europa, Orientale ed Occidentale. Al contrario, le iniziative di sicuro riferimento, come quelle di Verona, Xiamen, Izmir e Vitoria hanno fatto registrare ulteriori progressi, confermando un primato che per le prime due non è azzardato definire mondiale.

Secondo un’espressione ormai di moda, si deve dire che anche le Fiere del lapideo hanno conosciuto la rottamazione, spesso e volentieri con un sospiro di sollievo di operatori nel cui bilancio d’esercizio le spese di partecipazione avevano assunto incidenze abnormi, tanto più opinabili in quanto caratterizzate da ritorni marginali.

Caso mai, spiace che, pur senza arrivare a risultati tanto icastici, la crisi abbia coinvolto una realtà consolidata da secoli come quella di Carrara, la cui Fiera era sorta verso la fine degli anni settanta grazie alla lungimirante intuizione di Giulio Conti ed al ripudio di vecchie concezioni secondo cui il marmo non avrebbe bisogno di promozione, né tanto meno di tirare la volata alla concorrenza. Purtroppo, i ritardi iniziali e le successive scelte strategiche, non sempre vincenti, avrebbero finito per coniugarsi con i problemi del mercato, dando luogo ai risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti: aggravati, sia consentito dirlo, dalle interminabili logomachie tipiche del momento pubblico.

Oggi, il rischio non troppo nascosto è che Carrara faccia la fine dell’asino di Buridano, il quale, per l’incapacità di scegliere il cibo secondo opportunità e convenienza, finì per morire di fame. Intendiamoci: si tratta di un pericolo che le Aziende più avanzate e modernamente organizzate non correranno mai, ma nell’ottica del distretto, e dei suoi valori socio-economici, l’altra faccia della medaglia è palesemente scoperta. Occorrerebbero scelte unitarie che sono state sempre un sogno, già dai tempi in cui la zona apuana aveva un’Organizzazione di categoria diversa da quella del resto d’Italia, sia pure per ragioni storicamente valide; e servirebbe l’idea di considerare la vera promozione scientifica alla stregua di un investimento, non già di una spesa.

A proposito di cose umane, giova aggiungere che anche nelle situazioni più difficili c’è sempre una soluzione: come diceva un antico proverbio, a tutto c’è rimedio, fuori che alla morte. Fuor di metafora, se si vuole evitare il peggio, sarebbe il caso di prendere atto della nuova realtà lapidea del mondo globalizzato, andare alla ricerca di accordi e collaborazioni secondo ragione e convenienza, e non disperdere un grande patrimonio umano e professionale nella cultura del grezzo. E’ ben vero ciò che si affermava in epoche lontane, quando il blocco era considerato oro, ed il lavorato veniva definito piombo, ma oggi non è più “quel tempo e quell’età” perché marmi e pietre sono diventati, per unanime riconoscimento internazionale, un settore strategico destinato al progresso di tutti, e non certo di pochi.

Potenzialità e limiti delle pietre d’Africa

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Le risorse naturali di marmi e pietre sono diffuse dovunque, ma in taluni casi la loro valorizzazione è tuttora marginale. Da questo punto di vista, parlando di grandi aggregati geografici, l’esempio dell’Africa è emblematico: le ricchezze dei suoi giacimenti sono enormi, ma le strozzature che ne precludono lo sviluppo sono ben lungi dall’essere rimosse. In altri settori, anche collaterali, non è così: basti pensare a quello dei diamanti, in cui la produzione africana, guidata da Botswana e Congo, esprime la maggioranza assoluta (ma nella fattispecie non esiste la parcellizzazione tipica del lapideo, perché le miniere sono gestite in regime quasi monopolistico).

Nel campo della pietra, le tradizioni africane sono fra le più antiche, come attestano le grandi opere egiziane ed il livello molto avanzato che le tecniche estrattive avevano raggiunto in epoca storica.  E’ una referenza che non basta, tanto che la quota di mercato mondiale di marmi e pietre dell’Africa è attestata su livelli assai modesti. Non mancano Paesi di buon livello quantitativo e qualitativo, come lo stesso Egitto, sviluppato anche a livello di lavorazione, ed il Sudafrica, titolare di alcune esclusive assai prestigiose, ma altrove, se si eccettua l’attività di cava in qualche giacimento di alto valore merceologico e cromatico, ad iniziativa europea e più spesso italiana, come in Angola, Madagascar, Namibia e Zimbabwe,  manca una struttura imprenditoriale di settore che possa definirsi competitiva.

C’è di più: qualche iniziativa mista di verticalizzazione non ha dato i risultati in cui si era confidato, sia per i limiti delle infrastrutture e delle strutture professionali, sia per talune difficoltà contingenti come quelle per l’ottenimento delle concessioni, per gestire i trasporti e per acquisire tecnologie o pezzi di ricambio in tempi funzionali.

Negli ultimi decenni si sono organizzate importanti conferenze internazionali con lo scopo di promuovere forme di collaborazione con imprese di Europa, America od Asia, e con il supporto di forti Organizzazioni istituzionali, comprese quelle di espressione ONU, ma alla resa dei conti le difficoltà di cui si diceva, l’incertezza del diritto e la stessa instabilità politica hanno finito per esaltare i limiti dell’Africa lapidea, a danno delle sue potenzialità.

E’ inutile aggiungere che l’iniziativa locale sconta negativamente le carenze in parola, cui si aggiungono quelle di natura finanziaria, a più forte ragione vincolanti. Esiste qualche eccezione, come in alcuni Paesi dell’Africa mediterranea, ma si tratta di fattispecie circoscritte che confermano la regola.

Si potrebbe aggiungere che la struttura operativa è rimasta spesso di tipo post-coloniale, sia pure non senza contributi relativamente apprezzabili allo sviluppo socio-economico delle zone interessate. Tuttavia, il peggioramento della congiuntura mondiale, non ancora eliso se non parzialmente, e la progressiva riduzione dei fondi resi disponibili a favore della cooperazione internazionale, soprattutto nel bilancio dei Paesi sviluppati dell’Occidente, hanno precluso un ampliamento delle suddette prospettive ed il loro perseguimento in termini conformi agli auspici.

L’Africa lapidea può aspettare, sia pure suo malgrado, perché possiede riserve di alto valore tecnologico e cromatico, e di forte consistenza quantitativa, destinate ad essere valorizzate in una logica di esportazione ma prima ancora nelle politiche locali di sviluppo. Tuttavia, sarebbe bene comprendere meglio che queste forme di valorizzazione possono essere, e non solo nel campo del marmo e della pietra, un antidoto a flussi migratori indiscriminati ed ai problemi che ne derivano nelle economie mature.

Professionalità e know-how

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Marmi e pietre confermano regolarmente il loro appeal competitivo perché, pur venendo da lontano, riescono ad ottimizzare regolarmente, ad ogni latitudine e longitudine, i livelli di pur alta competenza professionale che hanno raggiunto. Ciò, con riguardo specifico alle lavorazioni speciali, che sono una conquista degli ultimi decenni e costituiscono l’effetto più visibile del controllo numerico computerizzato, applicato al lapideo. Naturalmente, non c’è solo questo: i progressi che si sono compiuti nel risanamento, in specie delle lastre, nella produzione economica di spessori sottili e nella crescita dei rendimenti che ne è scaturita, sono un altro grande capitolo che illustra il forte progresso compiuto dal settore.

Mezzo secolo fa, sarebbe stato difficile il solo pensare alla fresatura curvilinea, alla produzione seriale di pezzi complessi come i piani da bagno e da cucina, alla robotizzazione di lavori artistici e funerari, alle lavorazioni ad acido, al water-jet,  e via dicendo. Ciò, senza nulla togliere ai pavimenti a piano di sega od a quelli a correre, ai battiscopa, od alla valorizzazione degli scarti in palladiane od altre opere di recupero. La frontiera del possibile si è spostata largamente in avanti, anche nel settore lapideo, grazie al progresso tecnico, ma nello stesso tempo grazie alla capacità ed alla disponibilità professionale del marmista, che lungi dall’essere quel campione di conservatorismo di cui si è molto parlato, il più delle volte a sproposito, ha dimostrato un alto grado di idoneità alle innovazioni ed all’apprendimento di un know-how talvolta rivoluzionario.

La pietra ha espresso doti di duttilità che per molti aspetti erano insospettate, e gli orizzonti dell’impiego si sono ampliati a dismisura, sia nell’ambito strutturale sia in quello delle finiture di superficie, ed il suo utilizzo ha cessato, ormai definitivamente, dall’essere un fenomeno elitario: in caso contrario, non sarebbe stato possibile triplicare il volume degli utilizzi nel giro di un decennio ed accrescere produzione e volumi d’affari, nella loro espressione mondiale, assai più rapidamente di quanto sia accaduto nel sistema economico. La sinergia fra il momento tecnologico e quello professionale è stata determinante.

A livello di posa, l’industrializzazione del settore non è stata da meno, andando progressivamente ad elidere le sacche residue di stasi. Si pensi ai grandi rivestimenti esterni ed alla prassi ormai normale delle pareti ventilate; ai rivestimenti interni capaci di valorizzare caratteri del lapideo in precedenza ignorati o comunque teorici, come la trasparenza di materiali pregiati quali gli alabastri o gli onici; od alla stessa ricostruzione di blocchi a forma programmata di parallelepipedo, e con incidenza largamente minoritaria di leganti, che ha permesso di realizzare manufatti di grande formato, con ovvie economie di installazione.

Oggi, il know-how non è più un optional né tanto meno un orpello promozionale. Al contrario, è un patrimonio di conoscenze professionali, indispensabile a mantenere la competitività; in altre parole, è un ventaglio di attitudini ottimizzate che si acquista a prezzo di un impegno cosciente, anche se la dimestichezza coi nuovi strumenti informatici applicati alle macchine è diventata maggioritaria, e nelle giovani generazioni tendenzialmente universale, quanto meno nei Paesi sviluppati. Non a caso il know-how può essere addirittura oggetto d’interscambio, soprattutto nella versione applicata alle macchine ed alle strutture impiantistiche.

L’industria lapidea contemporanea ha progredito alacremente grazie alle competenze professionali, tanto più degne di nota in quanto riferite ad un organico globale in crescita talvolta rapida, come è accaduto in Cina e negli altri Paesi in via di sviluppo; ed all’ampia disponibilità a recepire un know-how di forte impatto sul governo dei costi, ed in ultima analisi, sul processo di democratizzazione degli impieghi, ben lungi dall’essere compiuto ma obiettivamente avanzato.

E se i marmi lavorati nel comprensorio apuano fossero già il 55% della produzione dichiarata?

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Foto Daniele Canali / Marmonews.it

Pubblichiamo per dovere di cronaca l’opinione di Andrea Balestri (di Assindustria Massa Carrara) apparso su Toscana 24 – Il Sole 24 Ore che aprirebbe nuove riflessioni in merito al recente dibattito sulla legge regionale relativa alle cave di marmo.

Dalla tabella proposta in questa opinione emerge che già il 55% del marmo estratto nel comprensorio apuano viene lavorato in loco. Significa che è già assolto l’obbligo previsto dalla tanto contestata legge? Significa che dobbiamo ripensare in termini innovativi le strutture della trasformazione del prodotto lapideo? Rispetto ad un passato non troppo lontano, le lavorazioni di marmi e graniti nel territorio hanno certamente vissuto una fase di parcellizzazione, ovvero mancano grossi impianti di trasformazione compensati dall’aumento di piccole e medie imprese dedicate a lavorazioni complesse che, per limiti oggettivi, non sono ancora in grado di fare un sistema compiuto.

Ora se la tesi esposta da Balestri corrisponde all’oggettività delle cose, possiamo domandarci shakespirianamente “tanto rumore per nulla”?
L’OPINIONE DI ANDREA BALESTRI

Sulle cave Consiglio regionale poco informato

Toscana 24 – Sole 24 Ore

Questi ultimi scampoli della legislatura hanno visto il Consiglio Regionale impegnato a licenziare (frettolosamente) una serie di provvedimenti con la testa rivolta alle prossime elezioni. Ne sono scaturiti provvedimenti a tratti sconclusionati, in modo particolare nel caso della legge sulle cave e del Piano Paesaggistico.
Il malcelato intento di adottare provvedimenti molto restrittivi nei confronti delle attività estrattive è stato edificato su basi conoscitive parziali che hanno associato le cave al male assoluto: escavazione selvaggia e priva di regole, nessuna ricaduta per le comunità locali, danni irreparabili per le sorgenti, montagne violate per farne dentifrici e altre affermazioni estreme per enfatizzare artatamente un trade off tra civiltà e barbarie. ….

LEGGI SU TOSCANA 24 – IL SOLE 24 ORE

L’edizione 2015 di Stone+tec

Photo: NürnbergMesse

Photo: NürnbergMesse

Da sempre l’impegno e la perizia tecnica degli enti promotori hanno arricchito in modo decisivo il programma specialistico che accompagna lo Stone+tec. Il Bundesinnungsverband des Deutschen Steinmetz- und Steinbildhauerhandwerks – BIV (Federazione tedesca degli scalpellini), il Deutscher Naturwerkstein Verband e.V. – DNV (Associazione tedesca della pietra naturale ) e il Fachverband Fliesen und Naturstein – FFN (Divisione piastrelle e pietra naturale) sostengono anche quest’anno l’incontro di settore a Norimberga e la loro partecipazione promette un programma collaterale strettamente connesso alla pratica con gli highlight già noti e con nuove proposte. Lo Stone+tec, Salone Internazionale della Pietra Naturale e Relativa Tecnica di Lavorazione, aprirà le sue porte dal 13 al 16 maggio 2015 al Centro Esposizioni Norimberga. » Read more

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